Spaventato? No. Esagerato. Come con gli eroi cantati alla vigilia. Sfortunato il Paese che ne ha bisogno. L’Aquila di Castriota lo artiglia al primo sospiro, la testa di Bastoni lo rallegra, la spingardata di Barella gli scoppia dentro, Luciano è il profeta della Nuova Italia… nerazzurra. Peripatetico, pensa sui passi. Cancella, meditabondo, mille immagini a bocca spalancata e occhi di bragia. Poi finalmente grida, grida vittoria. Signori del marketing, Spallettone è pronto a mille spot. Più di Mancini.
Viene da Certaldo, paese di Boccaccio, ma è un frate domenicano, dei Domini Canes, i cani del Signore che abbaiano la fede pallonara contro gli eretici. È apparso in tivù, al Tg1, prima d’Italia-Albania. Laico, non sembrava in Westfalia, ma fra San Pietro e il Quirinale. Serio ma sereno, avrei pagato chissà cosa per vederlo davanti alla tivù mentre la nemica Spagna malmenava la Croazia. Paura? No. Non è il tipo.
Nonostante l’età, continuo a fare collezione di figurine. Anche di figurone, nel caso di augusti vincitori. Parlo dei Ct che ho conosciuto prima di approdare a Luciano Spalletti. Diciotto dal 1960. O venti. Perché pur non avendo seguito neppure da appassionato il Mondiale del Brasile, nel ‘50, ne sentivo parlare in continuazione dal mio capo, a Stadio: Aldo Bardelli che con Paolo Mazza e Ferruccio Novo - presidente del Toro - faceva parte della Commissione Azzurra responsabile di una Nazionale presto affondata. Uso un termine marittimo perché l’Italia per arrivare in Brasile non aveva preso l’aereo ma una nave, a Genova; a metà viaggio gli azzurri erano già spompati, a San Paolo solo proiettati verso le dolci notti del roof garden. Prima figurina, Bardelli, un livornese dall’aria d’audace risicatore, in verità la nave l’aveva voluta lui: aveva una paura matta dell’aereo.
Giovannino Ferrari fu ct… ad honorem perché era diventato grande con Pozzo (a proposito, l’Alpino non l’ho messo in nota - anche se l’ho conosciuto bene - per non far sfigurare tutti gli altri) e con il solito Pavlòn Mazza introdusse il Ct Edmondo Fabbri detto Mondino (e anche Topolino) precisino, permaloso, incazzoso soprattutto dopo la Corea ’66. Mi chiamava “la peste dei tacchini”. E poi fu Uccio, Ferruccio Valcareggi, tranquillo col fuoco dentro, Campione d’Europa ’68, Italia-Germania 4 a 3 nel ’70, sei minuti di Rivera davanti a Pelé, addio nel ’74, Azzurro Tenebra. Di Fulvio Bernardini ho scritto pagine e pagine di stima e d’affetto: rammento la serenità del patriarca, il sorriso del Vittorioso, l’intelligenza contagiosa. Lo sostituì felicemente Enzo Bearzot, l’Illuminato, l’umile eroe, l’uomo che sorrideva con la pipa in bocca. Campione del Mondo annunciato da Nando Martellini. Gli ho voluto bene. Come a Nando. Come a Vicini, l’Azeglio di Romagna, un pont per fer i cont, Italia Novanta, traghettatore sottovalutato per far posto all’altro romagnolo, Arrigo Sacchi, un sorriso di sbieco, uscito dal cilindro magico del Berlusca, “vicecampione del mondo” - disse di sé - inventando la felicità del secondo, quello che Enzo Ferrari definiva «il primo degli ultimi».
Uno davvero simpatico? Ce-Cesare Maldini, il Ct dal volto umano, collezionista di Amarcord che distribuiva con la velocità del balbuziente. Dino Zoff? Giusto il tempo di un Europeo, la sua silente saggezza infastidì il Cav che l’accompagnò all’uscita favorendo l’ingresso del mitico Trap, fischi alla pecorara, suora sorella, acqua benedetta, esilio di Baggio. Comunque un azzurro perfetto, anche se un po’ bianconero.
Il mondo è ancora Italia con Marcello Lippi, l’uomo dal sigaro in bocca. Un comandante indomito eppur sgradito ai paraculi e ai moralisti che lo criticano ancora per quanto han sofferto vedendo lui e Buffon trionfare in Germania 2006. Donadoni aveva una squadra credibile ma non credeva in se stesso affliggendosi con cattivi pensieri e un Europeo buttato. Come Cesare Prandelli, il più corretto, intrigato da schemi e da voglia di progresso. Dannoso. Il successore, Antonio Conte, aveva tutto per farsi figurone, Ct azzurro strapagato e incontentabile ha lasciato agli eredi voglia di battaglia. Invito non raccolto da Gian Piero Ventura, l’elegantone che neanche s’accorse di essere sconfitto. Luigi Di Biagio ha firmato il libro delle presenze.
E infine lui, Roberto Mancini, finalmente l’Europa, finalmente Fratelli d’Italia ricantato dopo Germania 2006. Vogliono ricordarlo come il marchigiano fuggiasco in Arabia. Io ricordo il suo bel pianto con Gianluca Vialli. Quando il calcio è amore.