Mancini, dalla trincea al consenso

Alberto Dalla Palma
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In poco più di tre anni ha capovolto la Nazionale, che aveva toccato il fondo con la gestione firmata da Tavecchio e Ventura. Non si era qualificata per il mondiale russo e si era allontanata dalla gente, che non si presentava neanche più negli stadi dove giocavano gli azzurri. Mancini non ha solo conquistato gli Europei vincendo tutte le partite di qualificazione, non ha solo messo le mani su uno dei primi quattro posti entrando in semifinale contro la Spagna e non ha solo battuto il prestigioso record di Pozzo restando imbattuto per 32 gare consecutive ma ha anche - e soprattutto - fatto innamorare un Paese intero di una Nazionale che assomiglia sempre di più a quella di Azeglio Vicini, guarda caso l’unico ct che lo aveva trattato da fuoriclasse dall’88 al ‘90. Non sappiamo se Roberto si sia ispirato a quel gruppo nel momento in cui è diventato l’allenatore dell’Italia, ma di certo qualcosa di quella squadra ce l’aveva nel cuore e nella mente, perchè era nata sulla qualità dei giovani che in quell’epoca dominavano in Europa con la Under 21.
E non è un caso che Mancini, pur mantenendo nel gruppo senatori come Bonucci e Chiellini, abbia iniziato il suo lavoro, nell’estate del 2018, cercando i giovani talenti nascosti tra le panchine e le tribune dei nostri club, andando anche a vedere (di nascosto) qualche partita in serie B. Chiamò subito Zaniolo, che la Roma aveva preso quasi come uno scarto dell’Inter nell’operazione Nainggolan, trasformandolo nell’icona del suo progetto vincente: stage e convocazioni da 40 giocatori per fare una selezione giusta ed equilibrata. Sul suo taccuino ci sono già i nomi per i prossimi Mondiali: Raspadori e Bastoni, entrati ora nel gruppo europeo, oltre a Scamacca sono, tra gli altri, già in rampa di lancio, a prescindere da come andrà a finire l’avventura di Wembley.
Ma il capolavoro di Mancini è stato anche quello di riunire un Paese intero intorno a lui, uno degli uomini più divisivi del calcio italiano fino a qualche mese fa. Aveva vissuto una carriera in trincea, contro arbitri, avversari, giornalisti e tifosi, prima con la Samp e poi con la Lazio, non a caso due club lontani dal gruppo di potere. Combatteva la Juve e il Milan, rifiutava l’Inter per restare un uomo libero, lui contro tutti: più volte, a Roma si espose contro Galliani e Berlusconi, stimolato dal presidente Cragnotti. Mai amato dai tifosi avversari, aveva scelto anche di andare all’estero per vivere la Premier, "dove mai nessun collega mi avrebbe insultato sul campo" disse riferendosi a quello che accadde con Sarri al San Paolo di Napoli. Ora l’Italia è al suo fianco, compresa la critica, a cui spesso lui da giocatore aveva riservato atteggiamenti non proprio carini. E non c’è un allenatore che ne parli con freddezza: addirittura, tra i fans di Mancini c’è anche Arrigo Sacchi, il ct con cui aveva lasciato per sempre la Nazionale perché non sopportava il dualismo con Zola dopo aver perso quello con Roberto Baggio. E’ vero che il ct è cambiato tantissimo, lo guidano la ragione e il buonsenso e non più l’istinto, ma è anche vero che la sua timidezza, scambiata da giocatore per arroganza, è diventata la sua forza per imporre una Nazionale davvero serena, mai fuori dalle righe nemmeno in campo. Un vero e proprio Mister Italia.

 

 


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