Football came home! Il calcio è tornato a casa. Nostra, però. L’ultimo pallone ha preso la strada per l’Italia, quella giusta, la più giusta: siamo di nuovo campioni d’Europa e dopo 53 anni. È tutto così meraviglioso. Abbiamo meritato questo trionfo, abbiamo battuto tutto e tutti, 70mila inglesi, la famiglia reale, l’Uefa, gli scettici, l’ottimismo britannico, Boris Johnson. Le lacrime di Mancini sono il premio a un lavoro straordinario. Scrivo e sto male, sto male e sto bene. Benissimo. Mi manca il respiro, lo smartphone mi regala le urla di Polverosi, di mio figlio, degli amici, dei colleghi. Dalla strada arriva di tutto. Campioni d’Europa: che estate, quanta vita!
Siamo risaliti al piano nobile del calcio mondiale. La Grande Vergogna del 2018 è ridotta a incidente dimenticabile. Merito di Roberto Mancini, un modernista, ma mai un postmoderno: ha sempre avuto un’idea semplice, inattuale forse, ma intrigante del calcio: ha dimostrato che si possono fare ottime cose non solo con i milioni, ma con le idee: selezionando la tecnica, le aspirazioni e soprattutto i caratteri, esagerando nella somiglianza, investendo su un elemento sempre più trascurato negli ultimi trent’anni, la gioia di giocare a calcio, il divertimento, l’allegria e la fiducia. Su questi punti ha insistito: si è tenuto dentro le tensioni che un ruolo come il suo produce, non si è fatto coinvolgere da preoccupazioni superficiali che non avevano alcun potere di distrarlo.
Donnarumma; Di Lorenzo Bonucci Chiellini Spinazzola; Barella Jorginho Verratti; Chiesa Immobile Insigne. Una cosa sola. Siamo ripartiti da questa formazione da mandare a memoria come nelle migliori tradizioni. Undici cognomi, alcuni dei quali sorprendenti, ai quali bisogna aggiungere quelli di Florenzi, Acerbi, Emerson, Locatelli, Pessina, Belotti, Berardi, Bernardeschi, Sirigu, Raspadori e insomma i versi di una poesia di emozioni e calcio recitata in un mese e che non potremo dimenticare. Una Nazionale che ha lottato anche contro i propri limiti: mi ha ricordato le squadre capaci di fare risultati impensabili e apparentemente illogici nonostante i guai finanziari del club. In questo caso di un movimento fallito e conflittuale come il nostro, distante in questo anche dalla federazione della quale fa parte.
Ci siamo sorpresi ad amare senza riserve questo gruppo: ci siamo ritrovati a casa degli amici per la partita, nelle domande della gente comune che hanno preceduto la finale di Wembley, nei dubbi sull’arbitraggio che rimbalzavano da una strada all’altra, spesso per sentito dire.
In questi giorni abbiamo sentito parlare e letto di “parentela mediatica”, ovvero il grado di parentela e amicizia che si stabilisce tra il pubblico e chi a lungo è stato protagonista in televisione. Purtroppo se ne è parlato per occasioni dolorose come la morte di Raffaella Carrà. La Nazionale di Mancini è riuscita ad accorciare i tempi della teoria di McLuhan: sono bastati soltanto trenta giorni agli azzurri per entrare definitivamente nel cuore degli italiani e, aggiungo, per ottenere un grado di popolarità internazionale senza precedenti – c’entra un poco anche la Brexit.
Ciò che più mi è piaciuto di Euro 2020 è stato il ritorno a emozioni che sembravano irrimediabilmente contagiate dal virus della tristezza. Ma anche la restituzione di un ruolo unico e inimitabile al calcio. «Non sono tantissime le occasioni per sentirsi mondo, e nemmeno per sentirsi Italia» ha scritto Michele Serra «Serve un poco di pazienza per sopportare il patriottismo schiamazzato, la caciara in eccesso, le tonnellate di luoghi comuni. Serve però anche un poco di senso della realtà per ammettere che sì, è proprio così: un gioco - questo gioco, undici contro undici in un campo di 105 metri per 68 - può essere così potente da unire, per qualche sera, un popolo che prima e dopo la partita nemmeno sa di esserlo».
Oggi è un luminoso lunedì mattina di luglio. Sono felice per questo grande giornale, per chi ha dato tutto quello che aveva. Un giorno potrò dire che ero direttore quando Mancini piangeva di gioia e l’Italia urlava di felicità.