Il rigore di Jorginho-Giorgino me lo sono goduto un paio di volte anche con la telecronaca araba, trovando tremendamente divertente il momento in cui il Caressa di Riyad, l’agitatissimo e coinvolgente Fab Al Karess, improvvisa un «Bella ciao, bella ciao, ciao ciao». Se avesse aggiunto «andiamo a Londra, Hassan!» l’avrei abbracciato. A distanza.
Jorginho è nella favola, esaltato - oggi - anche da inglesi, francesi e arabi, e rimpianto dai brasiliani. «Parliamo di un calciatore raffinato, se vincesse l’Europeo meriterebbe il Pallone d’oro» così l’ha incoronato nei giorni scorsi Maurizio Sarri. «Deve essere capito bene, bisogna guardarlo attentamente, è un grandissimo calciatore. Stava firmando per il City, ma grazie a un intermediario riuscimmo a portarlo al Chelsea (l’episodio è all’origine della rottura dei rapporti tra i Citizens e il Napoli, nda). Non fu capito subito, ma in seguito venne molto apprezzato. Sono felicissimo per quello che sta facendo».
E felicissimi anche noi, che martedì sera siamo rimasti incantati dalla freddezza dell’azzurro quando si è incaricato di decidere la semifinale con la Spagna: Unai Simon da una parte, il pallone lento, beffardo e preciso dall’altra, e poi l’urlo dell’Italia, e i caroselli per le strade, e il collega bloccato - ma felice e rassegnato - intorno all’una e mezza sotto il Muro torto, e la sinfonia dei clacson, e le bandiere.
A quasi trent’anni Jorge Luiz Frello Filho è nella piena maturità: meriterebbe il Pallone d’oro - e di interrompere il dominio di Ronaldo e Messi - anche se non dovesse vincerla, la finale di Wembley: nella stagione della consacrazione internazionale ha portato a casa la Champions League battendo proprio il City di Guardiola, raggiunto la finale di FA Cup, persa con il Leicester, e si è imposto nel ruolo di “Professor Play” della sorprendente Italia di Mancini.
Non sono mai stato un fan del Pallone d’oro, essendo cresciuto professionalmente nei primi anni Ottanta con il Guerino d’oro che è considerato il padre di tutti i premi individuali del calcio mondiale. Tuttavia mi rendo conto che, anche se negli anni non si è mai capito quale fosse il criterio di assegnazione seguito da una giuria fin troppo eterogenea e fantasiosa (i titoli stagionali?, la popolarità?, la simpatia?, il conto in banca?, lo standing?, i follower?, l’alito?) per i calciatori ha un valore enorme e ne certifica il successo - per Ronaldo è da sempre un’ossessione.
Nei giorni scorsi Andrea Santoni ha ricordato i nove giocatori che sono riusciti a centrare il double Champions-Europeo nello stesso anno: Luisito Suarez nel ’64, Van Breukelen, Ronald Koeman, van Aerle e Vanenburg nell’88, Torres e Mata nel 2012, Ronaldo e Pepe nel 2016. In realtà hanno realizzato la doppietta anche Kieft (’88) e Anelka (2000), ma senza giocare la finale.
Il Pallone d’oro a Jorginho lo considero inevitabile, anche per l’assenza di una concorrenza all’altezza e per l’esclusività del repertorio: lui è il centrocampista che inquadra e prevede, rimonta e connette tutti gli snodi del gioco. E sempre più di rado perde di concretezza. Oltre a Sarri, anche Tuchel e Mancini sono disposti a sostenerne la candidatura. Ripensando agli “oriundi” del passato, spesso incapaci per natura o per scelta, di togliersi di dosso l’identità calcistica del Paese natale, rilevo che Jorginho si è scoperto espressione compiuta del più raffi nato calcio italiano, come quel Cesarini da Senigallia che nel 1931 inaugurò la zona dei sogni.