Ottantasette e 91’. Grazie, calcio, che ci regali emozioni come questa. E grazie, Carlo, perché per noi sei il calcio, quello che amiamo: grazie di esistere (e resistere). Solo tu riesci da anni a coinvolgerci a distanza, ci costringi a tifare addirittura per l’Everton, con il Real - lo ammetto - ci riesce più facile. Dalle mie parti si è creata una community di giornalisti - Alberto, Massimiliano, Gio, Pas - che conoscono Ancelotti da una vita e lo considerano un fratellone, un compagno di sport, passione e leggerezza. Ogni volta che vince qualcosa - càpita spesso - lo smartphone si riempie di gioia, della stessa gioia. Con questa sono 1.334 le partite che Ancelotti ha preparato, sofferto, cambiato, capito, vinto, pareggiato e perso da quando allena, ovvero dal 1995 a Reggio Emilia. Facendo due conti in puro stile Gino Palumbo, è come se avesse vissuto dalla panchina una partita lunga tre mesi di fila, giorno e notte, notte e giorno. A gennaio Carlo entrerà nel trentesimo anno di attività: 793 sono - a oggi - i successi, 297 i pari, 244 le sconfitte. Con il Real è arrivato a 284 presenze in due distinte fasi della carriera, 206 delle quali concluse con il sorriso del vincitore. I trofei che ha messo insieme sono 42, 14 da giocatore e 28 da tecnico. «Ti giuro che io non so quanti ne ho vinti» mi confessava giorni fa. Eppure in giro c’è ancora chi dice che lui ha fortuna (più prosaicamente, culo), non figura tra i migliori tattici, però è stratega e sa trattare i campioni. Grande gestore, dunque, non grande allenatore: una delle più enormi panzane diffuse dal mondo dei competenti un tanto al chilo.
Ancelotti è di nuovo in finale di Champions con il suo calcio non etichettabile. Perché è portatore sano di uno sport al quale si vuole sempre aggiungere qualcosa di inutile: Carlo ha la capacità di restituire all’appassionato la complessità e l’incanto di qualcosa che conosce alla perfezione e che per lui non ha più segreti. E adesso lo immagino mentre si accende una sigaretta e, boccata dopo boccata, spiega a qualcuno la chiave della sua ultima vittoria, così come fece a Parigi due anni fa, con la semplicità dei grandi: «Il portiere ha parato e il centravanti ha segnato». A forza di portieri che hanno parato e centravanti che hanno segnato, Carlo ha scritto alcune delle pagine più belle e vincenti della storia di Milan, Chelsea, Psg, Bayern e Real Madrid. L’ha fatto sdrammatizzando, conservando le tensioni dentro di sé, non manifestandole: «Li abbiamo asserragliati nella nostra area», mi spiegò dopo il pari di Manchester la notte tra il 17 e il 18 aprile. E se vi piacciono le perle ancelottiane, ne infilo altre nella collana dei ricordi più recenti. «All’Everton ho giocato con quattro difensori centrali tutti insieme», raccontò; oppure «abbiamo provato a perdere, ma non ce l’abbiamo fatta». Prima di un Clàsico: «Dài, che ci cascano un’altra volta»; e dopo: «ci sono cascati». Ma anche «guarda questo gattino che arriva a luglio» riferendosi al brasiliano Endrick. I giovani fuoriclasse lui li chiama gattini. Solo per Mbappé è passato a gattone. Ancelotti rende tutto più semplice e genuino e ormai è diventato una fede: non a caso il Bernabeu ha creduto nella rimonta fino all’87’ quando l’impresa si è compiuta. Alla fine l’ho visto cantare l’inno del Madrid insieme ai tifosi, lui da solo al centro del Bernabeu. Ed è l’immagine più bella e spontanea di un altro mercoledì da Carletto.