Così no, non così. Non sbagliando tre gol negli ultimi minuti. Non buttando nel bidone della spazzatura una partita tatticamente impeccabile. Non si può perdere una finale di Champions in questo modo: dopo aver annullato la superiorità della squadra più forte del momento, dopo averla normalizzata. I seicento milioni di differenza tra il Man City e l’Inter - si parla di valore delle rose, una stima un tanto al chilo - il campo non li ha mai mostrati.
Simone Inzaghi è stato più bravo dei suoi: l’ha preparata benissimo, perfetta la strategia, corretti i tempi di esecuzione. Soltanto gli errori di Lautaro e Lukaku non gli hanno permesso di realizzare un’impresa leggendaria, ed è per questo che l’Inter rientra da Istanbul con un’enorme valigia di rimpianti e l’orgoglio nello zaino. Per giorni abbiamo ascoltato discorsi da perdenti nati, da sconfitti in partenza, i fenomeni di Pep contro l’Inter degli inferiori; volutamente consolatorio il ricorso alla retorica della finale che non è una partita come le altre e a tutta una serie di luoghi comuni da vigilia sfinente. All’Ataturk la realtà è stata ben diversa, abbiamo assistito a qualcosa di sorprendente: Inzaghi ha fatto meglio di Guardiola nella nuova versione pratica, Pep ha alzato la coppa anche grazie a tanta fortuna. Per dire, Haaland il pallone buono l’ha visto una volta sola, Bernardo è stato ben contenuto da Dimarco, Gundogan ha girato spesso a vuoto, giusto Stones e Rodri hanno avuto rispetto delle loro quotazioni, in particolare il primo ha riempito il campo di sé.
Simone, non lo ripeterò mai abbastanza, ha fatto il possibile per farci dimenticare il primo tempo del City col Real nella semifinale di ritorno, ovvero i quarantacinque minuti marziani che confusero Ancelotti e impressionarono il mondo. La squadra di Guardiola non ha potuto esprimere la stessa aggressività, ha faticato a palleggiare e soprattutto ad armare gli esterni: Bernardo e Grealish non hanno trovato gli spazi che inseguivano. In più di un’occasione, poi, Ruben Dias si è dovuto rivolgere ad Aké, lasciato scientemente libero, per tentare inutilmente l’uscita. Dalle tre eurofinali italiane abbiamo ricavato soltanto amarezze. Che hanno tutte un nome o un cognome: Taylor per la Roma, Igor per la Fiorentina e Lukaku per l’Inter. Il suo colpo di testa in solitudine all’89esimo, a brevissima distanza da Ederson, frequenterà a lungo gli incubi degli interisti.