Qui non si tratta di toccare il cielo, ma di restarvi, sospesi sul confine della troposfera come un jet che, solcando le nuvole, veleggi leggero nella perdita di gravità. Qui non si tratta di saltare più in alto degli altri, ma di fermarsi a un metro da terra in una torsione che ritardi di un attimo lunghissimo la frustata del collo sulla testa, dandoti la sensazione di una librazione eterna. Lo stacco di Osimhen che buca le speranze dei tedeschi è la metafora di una distanza. Quella che sta tra il Napoli e una squadra normale. È un gap che fa ordinario ogni traguardo. Perfino la storica qualificazione ai quarti di Champions pare la naturale conseguenza di un primato robusto come venticinque gol in otto gare europee, contro avversari come Liverpool, Rangers, Ajax, e, da ultimo, Eintracht. Il Napoli è qualità, agonismo, intelligenza tattica e spirito di gruppo capaci di voltare la casualità del successo in una causalità. Non a caso, alla fine di ogni partita disputata dagli azzurri si fa strada, nella coscienza dell’osservatore, la convinzione che nessuna circostanza avversa avrebbe potuto ribaltare il corso degli eventi. Se pure lo spillo nigeriano non avesse raggiunto l’altezza dei 240 centimetri da terra, dalla quale ha disegnato una parabola nel set con la precisione di un cestista nel tiro libero, i tedeschi avrebbero forse potuto ribaltare il risultato? Nessuno che abbia visto Napoli-Eintracht, con il beneficio di una modesta esperienza di calcio, potrebbe sostenerlo.
Due sconfitte inspiegabili
Se c’è qualcosa che stona, in questa cavalcata inarrestabile verso l’acme della qualità, sono le due sconfitte rimediate dagli azzurri contro Inter e Lazio. Inspiegabili, alla luce di ciò che il gioco ha messo in luce in questa stagione. Eppure ci piace richiamarle proprio nel momento in cui la squadra di Spalletti sposta l’asticella delle ambizioni più in là. Perché da questo momento in poi si gioca tutta un’altra partita. Ipotecato lo scudetto, la sfida si sposta sul più alto dei palcoscenici del calcio continentale, e in un certo senso mondiale. Qui, nello spareggio tra le otto più forti squadre del pianeta, l’efficienza deve compiere un salto ulteriore e trasformarsi in automatismo creativo, azzerando le piccole sbavature che fino a ieri risultavano perdonabili. E che da oggi sarebbero intollerabili. Come, per fare un esempio, l’azzardo di Kim nel dribbling nell’area del portiere, con un rimpallo che solo per un caso gli è stato favorevole. Allo stesso tempo le risorse vanno amministrate con un raziocinio assoluto, perché la valutazione del rischio infortuni diventa una componente essenziale della performance. Osimhen potrà anche dolersi di qualche sostituzione, ma non sarebbe ammissibile mettere a repentaglio la sua tenuta.
La provocazione di Guardiola
Spalletti appare perfettamente consapevole di questa complessità. Non a caso si schermisce, irritato, quando gli si fa notare il complimento velenoso di Guardiola: «Il Napoli è la squadra più forte d’Europa». È un falso, perché nessun esordiente può dirsi tale prima che i tre fischi dell’ultima partita risuonino nello stadio. Proteggere il Napoli dalle pressioni ambientali e predicare umiltà è, da questo momento in poi, il compito più gravoso del tecnico e della società. Ma nelle storie di successo c’è una microfisica che chiama alla responsabilità tutti gli anelli di una stessa filiera, fino ai tifosi, ai quali ieri Spalletti ha rivolto un monito decisivo. Nessuna rivalità, dentro e fuori il rettangolo di gioco, conta più della concentrazione verso l’obiettivo. Vale per i protagonisti in campo come per chi ama questa squadra. Vale per la classifica dei cannonieri, come per la sfida delle bandiere. Un campione si vede dal coraggio, dall’altruismo e della fantasia, racconta una canzone che ha fatto la storia. Ma anche dalla capacità di non cedere alle provocazioni. Se Napoli vuol sentirsi una città da primato, deve condividere questo appello.