MANCHESTER - Non ci sono più i ragazzi delle banane a Maine Road, non foss’altro perché quel posto letteralmente non esiste più. Roba di quasi 30 anni fa, quando il City poteva fare storia giusto così, con una goliardata, diventata virale ante litteram: il primo gonfiabile giallo portato in una curva di uno stadio. Quella specie di via Gluck ha lasciato spazio ora a una realtà allora inimmaginabile: una squadra che vale 500 milioni di euro, da quattro anni leader in Premier (con due successi e due secondi posti) e ora decisa a scalare il trono dei Campioni. Perché in Inghilterra, Elisabetta II può battere il record di reggenza pluridecennale ma lì intanto le cose cambiano straordinariamente. E Manchester ne è una prova regina. Non solo per quello che è accaduto alla città a cavallo del millennio, tornata a rifulgere economicamente, dopo il tracollo post tatcheriano, ma appunto, per restare nel nostro, anche per il miracolo City, l’altra metà del calcio locale, ormai diventata anima ricchissima e in odore di nobiltà, uscendo dall’ombra proiettatele addosso da sempre da quelli dell’United, il cui sogno non abita più solo nel proprio teatro. «Vicini rumorosi»: così li aveva definiti senza affetto in passato, e significativamente, Sir Alexander Chapman Ferguson: beh, adesso la musica la fanno proprio loro, i citizen, decisi a suonarle ai massimi livelli, cambiando prima le gerarchie interne, e adesso guardando all’Europa.
CAPITALE INGLESE. Un percorso che si intreccia a quello dello United, gioco forza, che merita una rapida ricostruzione, prima di arrivare a City-Juve. Che riparte nella sua avventura con una prima tappa che vale il Mortiriolo, a Manchester, ovvero mezzo milione di anime, autentica capitale del calcio inglese. Lo dice la storia (qui non a caso ha sede il National Football Museum, dal 2001, di fronte alla Cattedrale, trattandosi di materia sacra...), lo riafferma anche la cronaca recente. Restando all’epoca della Premier, iniziata nel 92/93, qui sono finiti 15 dei 23 titoli assegnati contro i 7 di Londra e l’exploit di Blackburn ‘95; sempre qui nello stesso periodo sono arrivate 2 Champions contro una di Liverpool e una londinese targata Chelsea. Ma mentre la coppa delle grande orecchie brilla solamente nella bacheca dell’Old Trafford la novità recente sono le due Premier per i citizen, una vinta da Mancini (2012) e una dall’attuale tecnico Pellegrini (2014).
RINASCITA. Una scalata iniziata nel 2008 con lo sbarco a Manchester di Mansour Bin Zayed Al Nahyan, presidente della First Gulf Bank, fondatore dell’Abu Dhabi United Group for Development and Investment, già azionista chiave di Barclays, seconda banca britannica, salvata dal fallimento grazie ai suoi 3,5 miliardi di sterline, due mogli e tre figli, un patrimonio sconfinato. Entare in possesso del club gli costa molto meno, 220 milioni. E’ il 1 settembre. Solo un anno prima, 2007, il City quasi fallito era entrato nel portafoglio farlocco di Thaksin Shinawatra, ex Primo ministro thailandese, leader del partito populista Thai Rak Thai, esiliato tra scandali di varia natura e riparato a Dubai poi in Montenegro. Mansour Bin Zayed Al Nahyan lascia la presidenza a Khaldoon Al Mubarak e inizia a investire pesantemente, in competizione col cugino Tammin bin Hamad al-Thani, emiro qatariota e gran signore del Psg. Intanto segue l’acquisizione del NYC Fc, di cui, da due anni è presidente. Insomma, stiamo parlando, tra le tante, dell’uomo che, dopo aver lasciato alla Juve Tevez, ha adesso “portato” via Pirlo!
MILIARDI SULLA CITTA’. Tornando a Manchester, quello che è accaduto ai due club rivali è veramente il sogno di ogni tifoso. Del City abbiamo detto. Dall’altra parte, lo United aveva già conosciuto la svolta fortunata, con la società rilevata dalla famiglia Glazer, un super clan americano di 21 membri, con sede in Florida (che un anno fa ha appena il suo mitico capo, Malcom). Secondo Forbes, i Glazer possono contare su 4.7 miliardi di dollari di patrimonio, basato su 2 milioni di metri quadrati di centri commerciali e investimenti nel mondo dello sport attraverso la First Allied Corporation.
DOPO LA BOMBA. Un turbinio di finanziamenti nel calcio, andati di pari passo con gli investimenti sulla città. Che il prossimo 15 giugno potrà celebrare una sorta di sua seconda fondazione, dopo quella di epoca romana. Saranno infatti passati 20 anni dall’attentato dell’Ira che sbriciolò l’intero centro della città: 1500 chili di semtex sistemati in un furgone-bomba, parcheggiato in Corporation Street, davanti a Marks & Spencer, che esplosero di mattina, in un’area commerciale affollata da 80mila persone, evaquate in tempo grazie a una telefonata di avvertimento. Bilancio 220 feriti e 1,2 milirdi di sterline di danni stimati. Il giorno dopo a Manchester, Old Trafford, si giocò ugualmente Russia-Germania, per Euro ‘96. Ripartì così la città, giocando a calcio. Adesso il passato industriale dopo la lunga crisi di fine millennio ha lasciato il posto a un presente fatto di rivoluzione urbanistica e nuove aree economiche di eccellenza, tra design, arte e new media. Il vero filo rosso tra le epoche resta il calcio. Con un City in più, si può dire.
QUESTO CITY. L’anno dell’apertura del Museo del calcio, 2001, i citizen erano in B, 1 coppa delle coppe dimenticata (anno 1970), due titoli lontani (‘37,‘68). L’acuto di Mancini è stato solo l’inizio concreto di una nuova era. Adesso Pellegrini ha in mano un gioiello da 500 milioni. Il mercato ha portato in extremis soprattutto il trequartista per il gran salto, De Bruyne, roba da 75 milioni di euro. Il City, non più guscio di noce, è diventato il Topazio, il megayatch da 147 metri del suo propietario. La partenza stagionale è stata formidabile: 5 vittorie su 5 turni, 11 gol fatti e 0 subiti. Tra tutti i campionati più importanti Hart resta l’unico portiere imbattuto (anche il Real ha la porta inviolata ma ha giocato solo 3 partite). E che dire della fase offensiva? Hanno già segnato 9 giocatori, di ruoli e di nazionalità diversi: il difensore belga Kompany (2), il mediano brasiliano Fernardinho (2), l’esterno serbo Kolarov, il fenomeno ivoriano Yaya Touré, il jolly spagnolo Silva, il talentuso francoalgerino Nasri, il predestinato inglese Sterling, il Kun argentino Aguero e il baby fenomeno nigeriano Iheanacho. Fin qui Pellegrini ha sempre mandato in campo gli stessi sette undicesimi (450'), del suo 4-2-3-1: Hart in porta; Sagna (Zabaleta ko) e Kolarov esterni, Kompany e Mangala centrali e Fernandinho-Touré (-12') in mezzo al campo. Rotazioni minime per Silva, Navas, Sterling e Aguero. Il tecnico sa bene cosa si aspetta da lui la società: superare la sindrome Barça. Nelle due ultime stagioni di Champions infatti il sogno dei citizen si è fermato agli ottavi, sempre per opera del Barcellona. Questa deve essere la stagione senza limiti, come quella della Juve appena cento giorni fa. Pellegrini, 61 anni, per parte sua sa di avere una fiducia legata ai risultati: il prossimo giugno scade il suo contratto. Ha dovuto combattere prima con l’ombra di Mancio e poi con quella futuribile di Guardiola, tenendo botta con le sue prime vittorie in carriera (1 Premier e 1 coppa di Lega). «Mai pensato di essere cacciato: non siamo al Real, dove per tutti ero già stato esonerato dopo le prime tre partite, che avevo...vinto!». Qui in altri tempi lo avrebbero atteso con le banane. Ma anche i citizen adesso sono persone che contano.