Una porta che si apre e un portone che va chiuso, perché gli spifferi - si sa - producono anche effetti nocivi. In un’estate che sa di tutto e però anche di niente, il Napoli s’accorge che qualcosa sta cambiando in se stesso, nella sua storia più recente: le stagioni cominciano e finiscono, fatalmente, contro l’anagrafe non si può litigare e adesso che è tramontata la belle époque, nella quale Insigne & Mertens hanno avuto un ruolo centrale, un’altra ne va costruita.
Senza voler soffocare quella vena romantica e forse un po’ nostalgica ch’è ingrediente del calcio, il Napoli si sta affacciando nel suo futuro, deve costruirselo cominciando a spazzare via dall’atmosfera quel venticello avvelenato che s’avverte, ha il dovere di riavvicinarsi alla propria gente con trasparenza e la lungimiranza ch’è servita per vivere dieci anni (dieci anni, eh!) dentro il proprio progetto e poi deve consegnare a Luciano Spalletti un ambiente sano in cui continuare a seminare il proprio calcio. C’è un ponte, e non è certo invisibile, che collega il Napoli dei sogni vissuti a quelli da disegnarsi, e Spalletti è la garanzia tecnica e pure umana sulla quale adagiarsi: in un anno - il primo a costo zero - con un mercato necessariamente privo di investimenti, al di là della ragionevole amarezza per il finale, c’è finito dentro la riconquista della Champions League, economicamente l’aspetto più rilevante, e però anche la definizione d’un mood a lungo esaltante, ispirato da un calcio moderno e sfacciato, da una personalità persino esagerata, da una autorevolezza che è andata sgonfiandosi per varie implicazioni e pure - evidentemente - per umanissimi errori.