Lazio, cosa c'è dietro l'addio di Immobile: i due motivi principali

Nelle prossime ore Ciro è atteso a Maribor, in Slovenia, dove il Besiktas è in ritiro
Malcom Pagani
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Il centravanti è stato assassinato verso sera, ma non si trova un colpevole neanche a pagarlo. Diranno che si trattava di soldi. Quelli riconosciuti e fatti risparmiare a Claudio Lotito. Quelli destinati a Ciro Immobile per passare dalla Lazio al Besiktas. Diranno che si trattava di contratti, di firme, di convergenze parallele. Nessun mistero, tutto nero su bianco, tutto controllato, tacitato, anestetizzato come quando si divorzia senza urlare per il bene dei figli.

Immobile, i motivi dell'addio alla Lazio

Lo diranno, ma mentiranno. Era stata una grande storia d’amore e si stava trasformando in una vicenda in lento ma costante cammino verso la sponda dell’abitudine, del rinfaccio e del malumore. Per quelli come Immobile o l’amore è assoluto o semplicemente non è. Un’altra aquila quindi, da far volare duemila chilometri più a sud, per uno che come nella canzone di Lucio Battisti da troppo tempo non apre le braccia a nessuno e ha bisogno di qualcosa di più che essere sopportato, messo in discussione, alternato con un rivale che non ne vale un’unghia, obbligato come fosse Dorian Gray a vedere il suo quadro invecchiare in cornice, processato ogni giorno con la giovinezza e i suoi anni migliori, quelli in cui segnava prima ancora di dire buongiorno, a condannarlo neanche troppo velatamente: fatti da parte, accomodati, non sei più quello di prima. I calciatori sono materiale frangibile. Hanno polmoni, occhi, orecchie e muscoli. Il più importante di tutti è il cuore. Ciro respirava, osservava, ascoltava e soffriva. Un conto è la centralità, altro riscoprirsi periferici dopo aver dato ogni cosa alla causa. Se è vero che il momento più importante in un qualsiasi rapporto è la delicatezza con cui si chiude la porta, bisognerà essere adulti e provare a dirsi la verità. E per potersi guardare in faccia senza arrossire bisognerà ammettere che una parte, forse maggioritaria, di quelli che oggi gridano al golpe, alla definitiva perdita di identità e allo smantellamento progressivo della Lazio erano tra quelli che si auguravano finisse così.

Immobile, l'ultimo regalo

Immobile lo sapeva meglio di chiunque altro e ha deciso di fare l’ultimo regalo. Ai laziali e a sé stesso. Un addio, quando chi parte ha significato veramente qualcosa, divide. Fa litigare anche gli amici. Vieri, Totti, Di Bartolomei, Chinaglia e potremmo continuare per ore con la carovana dei rimpianti, delle recriminazioni, dell’ “è colpa di”. Non ci saranno manifestazioni simili a quelle del 1995 per Beppe Signori, ma per rimpiangere c’è sempre tempo. Non è ragionevole dubitare che per Immobile, non solo per questioni numeriche, in tanti proveranno meritata nostalgia. Alcuni vedranno il campionato turco, altri aspetteranno gli eredi al varco. Lui farà il professionista. Vincere o perdere è un colpo di vento, un colpo di genio, un colpo di culo. Se Immobile ha avuto fortuna in pochi l’hanno inseguita più di lui. Faceva gol come li faceva suo padre e continuerà a farli perché ha sempre voluto farli. Anche se a poco più di dieci anni, con i ragazzini della Salernitana ti mettono fuori squadra, a bordo campo, a tenere la bandierina del guardalinee. Anche se i provini non vanno bene e della maglia del Parma resta solo una foto in divisa, con il campo vuoto sullo sfondo, oltre il reticolato verde di un’illusione. Anche se sedotto e abbandonato dalla Juve, a cottimo tra Grosseto e Siena, finisci per segnare due gol e a vent’anni sembra già finita. Anche se a Dortmund, con una squadra allo sbando e Jurgen Klopp in confusione, nessuno ti rivolge la parola, né ti invita a cena fuori. Anche se a Siviglia giochi gli spezzoni. È sempre stato forte e ha avuto carattere, Immobile. Ha retto alle pressioni. Ha viaggiato. Ha capito. È caduto e si è sempre rialzato. Ma era il re dove erano favorevoli alla monarchia. Era il re dove gli buttavano fiori e non lo consideravano un usurpatore. Era un re a Pescara, con Zeman, che l’aveva preferito al centravanti che mangiava troppi cioccolatini e teneva la tuta arrotolata, Maniero, e lo fece segnare al ritmo di un Valentin Angelillo. Era un re a Torino, con Giampiero Ventura e Alessio Cerci che in certe domeniche sembrava Bruno Conti e non uno che potesse finire per ritirarsi, a poco più di trent’anni, dopo un improbabile deriva in Lega Pro. Ed era un re e Roma, naturalmente, dove danzava leggero scrivendo un certo numero di pagine gloriose, di identificazione collettiva, di abbracci, caroselli e urla. Non era un re invece in Nazionale, Immobile: una malia. Il Ciro che puniva i portieri con intuito, rapidità e furbizia, a un tratto si inceppava. Anche lì, forse, non era un caso. I titoli di giornale, i dubbi, le ombre dei rivali. Lo scetticismo. Ciro lo sentiva. E lo pagava. Non perché fosse debole, ma perché è sempre stato un sentimentale. Per questo finisce qui: per non sporcare la tela, per ricordarsi come si era e pensare lietamente a cosa si sarà. Un’aquila non può diventare aquilone. Volano entrambi. Non è la stessa cosa.


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