Sarà perché il rendez-vous di Villar Perosa evoca i simboli di un’imperitura sovranità, ma le parole di Allegri tradiscono un nervosismo che racconta, rispetto a quella memoria, tutta un’altra vigilia. A poco più di una settimana dal via, la Juventus è il cantiere di una ricostruzione, dove ancora deve concludersi la demolizione delle parti vecchie per pensare di erigerne di nuove. E su cui si abbatte, inaspettato, il crollo di un pilastro portante. Perché Pogba non è solo uno dei due top player che il club si concede al mercato dei saldi. È soprattutto la chiave con cui tenere in equilibrio, e forse anche in piedi, la traballante architettura del centrocampo. Si racconta perciò, non senza fondata malizia, che quando il tecnico comunica ai cronisti che la Juve non ha bisogno di Parades, potendo contare su Locatelli e Rovella - sì, cita proprio Rovella! - gli angoli della sua bocca si facciano più acuti del solito, celandosi dietro un sorriso amaro.
Le transizioni sono sempre una scommessa, ma questa lo è due volte. Perché Dybala, Morata, Chiellini, De Ligt, Bernardeschi sono sì gli artefici di una stagione mediocre, ma Di Maria, Bremer e l’infortunato francese non saldano da soli uscite tanto pesanti. Né lo fanno il rientro di Fagioli e gli arrivi di Gatti e Rovella, tre talenti di sicuro valore, che pure con il tempo possono diventare altrettanti punti fermi.
Il fatto è che la Juve non ha tempo. Non ha il tempo del Milan, che ha investito in un vivaio internazionale, portandolo in due stagioni allo scudetto. La Juve sente gli ultimi due titoli mancati come una colpa da cancellare. L’urgenza fa del recupero di Chiesa una scommessa decisiva. L’urgenza induce la dirigenza bianconera a uno zigzag strategico tra la fiducia in una graduale rifondazione e l’ansia per una risalita immediata. I Pogba e i De Maria, per valorosi che siano, rispondono a quest’ultima leva dello spirito, quella che sussurra la rivincita alla coscienza del giocatore d’azzardo sconfitto al tavolo. La voglia di rimettersi in piedi subito è tutta nelle parole di John Elkann, e non sai se rivendichi i trentotto scudetti, mettendo in conto anche quelli cancellati da Calciopoli, per orgoglio o perché ne avverta intero il peso inattuale, tanto da sentirsene schiacciato. Due anni senza scudetto sono per l’erede dell’Avvocato un’apnea da svenimento.
Né a rianimare il clima giungono le frecciate di Allegri. Che malcela il suo scetticismo sulla terapia conservativa del menisco, scelta dal campione francese, e aggiunge che quest’infortunio «ci ha lasciato a piedi». Anche lui ha fretta, perché nella mente di un allenatore condannato a vincere perfino l’immagine di cinque scudetti di fila può sfumare in rapida dissolvenza. Tanto più dopo aver rifiutato l’offerta del Real, che ha portato in gloria Carlo Ancelotti. Costi quel che… Kostic, Allegri non ci sta a vedersi passare davanti un altro tricolore e rinunciare a farlo suo.
L’orologiaio a cui è assegnato il compito di riconnettere le lancette della Juve con il suo tempo è Maurizio Arrivabene. E mai cognome tradì un’impresa così ardua. Poiché Arrivabene arriva tardi, dopo che le casse bianconere sono state dissanguate dall’azzardo ronaldiano. Con la certosina cura dell’artigiano gli tocca di riparare il meccanismo, sostituendo le parti usurate con i ricambi seminuovi che si trovano sul campo, ma soprattutto di convincere i suoi soci a dare la corda con meno irruenza del passato. La misura è la virtù del potere.