Qui non è in discussione il concetto di “lista” in senso assoluto ma il vizio di fondo che il regolamento italiano (in vigore dal 2015-16), si porta dietro: troppe differenze significative con il modello Uefa. Introdotto per le competizioni europee, il tetto di 25 giocatori over 21, con tutto il corollario dei posti riservati ai giocatori cresciuti nel club o comunque nei vivai di quella federazione, doveva servire a contenere i costi e a imporre alle società comportamenti virtuosi. C’è riuscito? In parte sì. Ha condizionato le strategie di mercato dei club? Molto, a volte troppo.
La regola italiana è figlia di tanti compromessi, anche di una sensibile correzione in corsa voluta dalle società, cioè dai presidenti. L’Europa chiede di valorizzare gli under 21? I club di A hanno alzato la soglia di un anno, fino ai 22. Per l’Uefa bisogna essere nati dal 2003 in poi, in A quest’anno vanno bene anche i 2002. Nelle coppe i baby possono essere utilizzati liberamente solo se hanno già trascorso due stagioni di fila in quel club; in Italia fa fede la data di nascita, firmi e sei uno in più da buttare in campo. Non stupiamoci se anche le medio-piccole, che il problema dell’Europa non ce l’hanno, non sono così propense a puntare sul made in Italy e sul vivaio: basta fare incetta di (quasi) giovani all’estero e il gioco è fatto, no?
Con queste contraddizioni tra un sistema più permissivo (o troppo?) e uno più rigido è difficile programmare, ancora di più rispondere in tempi brevi a imprevisti di mercato: risolvere l’emergenza con un calciatore utilizzabile solo in campionato, ad esempio, non aiuta certo a contenere i costi. Allineare i due regolamenti? In questo momento sarebbe già una vittoria riportare a 21 anni la soglia degli under: non si può essere giovani per deroga.