Il salvacalcio inglese scavalca club e FA

Una nuova authority indipendente supervisionerà l’attività fino alla 5ª serie. Norme più severe per le iscrizioni, controlli su azionisti e manager. Divieto di partecipare a tornei alternativi. Cambi di nome, stemma e maglia: potere ai fan
Il salvacalcio inglese scavalca club e FA© Getty Images
Alessandro F. Giudice
6 min

Per comprendere la portata del White Book con cui il governo Sunak vuole regolare in modo univoco l’intero sistema del calcio inglese giova ricordare la tradizionale ritrosia britannica verso ogni ingerenza del potere centrale sull’iniziativa di mercato. Per alcuni è una svolta epocale: in 160 anni di storia del calcio il primo tentativo concreto di controllarne gli eccessi e pianificarne un futuro ordinato mettendo – nelle intenzioni – i tifosi al centro del sistema. Per altri, l’idea di un’autorità governativa al vertice di un’industria nella fase più opulenta della sua storia è una manovra pericolosa. Può rompere un giocattolo da tempo vincente sul mercato globale. 

Authority

Il documento prevede, anzitutto, la nomina di un’authority indipendente a cui assegnare la supervisione del calcio: non solo la Premier ma tutti i campionati maschili, fino alla quinta serie. Avrà la responsabilità di stabilire un nuovo sistema di licenze ponendosi sopra Football Association, Premier League e EFL (la lega dei campionati sotto la Premier) con requisiti stringenti per l’accesso ai campionati, sia in termini di sostenibilità finanziaria che di credibilità di azionisti e manager. Ciò mira a impedire che la crescita dei big perda per strada piccole società mal gestite, lasciando a piedi comunità storiche di tifosi, mentre il vertice della piramide diventa più potente. Nel 2019 fece impressione il fallimento del Bury, fondato nel 1885 e sopravvissuto a guerre e cicli economici. Trascinato nel baratro dalla proprietà, non si è più iscritto a nessun campionato lasciando nella desolazione i tifosi e la comunità locale.

Cinque miliardi

Da tempo in Inghilterra si mette nel mirino lo strapotere della Premier. Con oltre 5 miliardi di ricavi, provenienti in larga parte da contratti tv e commerciali, doppia quasi i due maggiori concorrenti (Liga e Bundesliga) e fattura due volte e mezzo la Serie A. Una disponibilità di risorse tanto sbilanciata consente poi di dominare il mercato, offrendo stipendi inavvicinabili e valori di cartellino che drogano il mercato, privando il resto del sistema della capacità di competere per i migliori giocatori. Ma la prodigalità è nemica della qualità perché i soldi facili abbassano la soglia di attenzione, portando a spendere spesso senza criterio. Su queste colonne, qualche giorno fa, Rummenigge ha evidenziato la scarsa raccolta di trofei dei club inglesi nelle competizioni europee rispetto a competitor meno ricchi ma capaci di assegnare valori più corretti al denaro. Lo squilibrio con cui la Premier schiaccia il mercato desta malumori anche in patria dove la richiesta di contributi di solidarietà dalla Premiership e dai campionati minori si è accesa negli ultimi anni.  
La Premier nacque nel 1991 con l’idea di valorizzare il prodotto-calcio nel nascente mercato delle televisioni a pagamento. I club maggiori si sentivano frustrati dall’inerzia della FA, si veniva dagli anni disastrosi del dopo-Heysel. Il grande pubblico era poco interessato a un prodotto scarso la cui fruizione era scoraggiata, da un lato, dalle condizioni fatiscenti degli stadi e da problemi di ordine pubblico. Dall’altro, dalla scarsa copertura televisiva. Basti ricordare che nella stagione 1985/86 neppure la BBC aveva presentato un’offerta per il campionato rimasto così oscurato finché la FA accettò un’offerta irrisoria: 1,3 milioni per la seconda metà della stagione in corso e 6,2 per le due successive. Già nel 1988 Arsenal, Tottenham, Man United, Liverpool e Everton si staccarono dalla posizione comune per negoziare un accordo con la piattaforma satellitare BSB ricavando 44 milioni in tre anni. Erano le prove generali della Premier che sarebbe nata per iniziativa di venti club staccatisi dalla FA. L’avvento di Sky cambiava le cose: iniziava l’epopea che ci ha portato ad oggi.  
Ma siccome troppo successo genera invidia, la hybris della Premier ha scatenato reazioni. Il calcio in UK è fenomeno popolare, ha una storia centenaria e numerose comunità di fan resistono alla globalizzazione. Sul piano politico, il governo ha osteggiato la Superlega temendo che avrebbe finito per minare la forza della Premier, ultimo veicolo di successo della cultura inglese nel mondo. Johnson scese in campo per intimarne l’uscita ai sei club partecipanti. 
Così nel 2021 un comitato parlamentare guidato dall’allora ministro Crouch aveva promosso uno studio per trovare soluzioni che favorissero il coinvolgimento dei fan. Tre i temi individuati: la crescita degli incentivi che espone i club minori a fragilità finanziarie per, proprietà poco affidabili che allontanano i club dai tifosi, carenza nell’infrastruttura regolamentare del mercato. Gli obiettivi indicati al governo furono: la ricerca della sostenibilità di lungo periodo, il contrasto a posizioni di monopolio dei grandi club, la competitività internazionale, le regolamentazioni UEFA. Il White Book punta a risolverli vietando, tra l’altro, la partecipazione a leghe alternative (chiaro sbarramento ai progetti di Superlega) e ponendo filtri all’importazione di giocatori dall’estero che penalizza la nazionale inglese. Serviranno specifiche autorizzazioni per ogni cambio di stadio; i tifosi avranno più poteri nel caso il club decida di cambiare denominazione, stemma o i colori della maglia di casa.

I dubbi

Difficilmente la regolamentazione aumenterà la competitività del calcio inglese ma il trade-off è politico, tra efficienza economica e consenso popolare. Le possibilità che il giocattolo si rompa sono alte. Milton Friedman diceva che, se un governo gestisse il Sahara, poco scarseggerebbe la sabbia e questa sfiducia nelle capacità gestionali di una élite politica come quella britannica, con numerose prove di insipienza al suo attivo, alberga nei grandi club che temono di perdere competitività. 


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