Claudio, Pellegrini resta davvero?
«Sono sicuro di sì. Però vorrei chiarire una cosa».
Quale?
«Non è stato lui a insistere per scendere in campo nel derby. In tanti anni nessun giocatore mi ha mai chiesto di giocare. Con Lorenzo sono bastate poche parole il sabato mattina. Io non faccio discorsi lunghi, non perdo tre ore a parlare con la squadra. I giocatori hanno una soglia di attenzione di otto secondi. Spesso basta una battuta fatta bene. Del resto anche il Papa ha detto recentemente che le omelie devono essere più brevi».
Usti! Hai scelto un paragone da niente.
Ride. «Avevo deciso di tenere Lorenzo in panchina, ma nei suoi occhi ho visto una luce differente, aveva gli occhi pieni di luce. Ho capito che la voglia di esserci, di giocare, era enorme. E ho cambiato idea. È andata bene a entrambi. Diciamo che un po’ di esperienza me la sono fatta».
Benedetta sensibilità.
«Non c’è tecnica, né strategia. Viene tutto così naturale tra persone intelligenti. Di solito con i ragazzi me la cavo così: “Mi fido di voi e dopo facciamo il punto. Cercate il vostro fuoco dentro. Un’occasione così non capiterà più. Cercate quel fuoco, non vergognatevi. E loro non si vergognano”».
Facciamo il punto significa faremo i conti.
«Ci sei arrivato».
Senza sforzo... Quando allenavi all’estero eri considerato il meno italiano degli Italians perché puntavi pochissimo sulla tattica.
«Non amo le gabbie mentali, provo sempre ad aprirle».
Qui non servono spiegazioni.
«Ho girato il mondo, allenato dappertutto, da noi c’è sempre stata troppa tattica, giocatori ingabbiati, talenti frenati e spettacolo depresso. Le cose sono cambiate con la globalizzazione del calcio. Calcio globalizzato, non evoluto. Più informazioni per tutti e più omologazione. D’accordo sull’organizzazione difensiva, sulla personalizzazione dei compiti, ma poi in campo ci vanno loro. Che devono sentirsi bene e giocare con naturalezza, come sanno. Cosa vuoi che si possa dire a gente come Dybala, Del Piero, Totti? Ma anche a Hummels, Paredes, Pirlo, Lampard, ti butto lì un po’ di nomi».
Più stratega e psicologo che tattico.
«Alla tattica si è dato troppo peso, troppo. Il calcio è semplice, spesso sono gli allenatori e i calciatori a complicarlo. Ho sempre ripetuto che il calcio non è chimica, non ha regole universali. Conta prendere il meglio dal gruppo che hai».
Mi ricordi una leggendaria battuta di Pesaola, al quale un giorno rimproverarono di aver messo male la squadra in campo. «Io li metto bene» rispose. «Ma poi loro si muovono».
«Questa m’era sfuggita, è fantastica».
Claudio, non senti anche tu il dolce profumo della restaurazione?
«In che senso? Sento solo il profumo della Roma e di Trigoria».
Si parla sempre meno di giochisti e risultatisti e molto più di calcio in purezza.
«Ognuno applica l’etichetta che vuole a questo o quell’allenatore, io faccio calcio e da tanti anni».
C’è un collega che ti è più affine di altri?
«No. In questo momento ci sono tanti allenatori che si rifanno a Gasperini, io seguo solo me stesso».
Non rischi di sbagliare.
Ride di gusto.
Claudio, in definitiva sei tornato alla Roma per...?
«Rimetterla in moto e porre delle basi solide, la Roma deve tornare a lottare per qualcosa di importante, per lo scudetto. È finito il tempo della Rometta, ora c’è la Roma, i Friedkin sono abituati a pensare in grande... Cerco di fare quello che so e posso. In un secondo tempo metterò la mia esperienza al servizio della società».
Intendi al momento delle scelte per la prossima stagione.
«Precisamente».
Consulente ad personam.
«Non mi sembra che tu possa considerarla una notizia».
Dammi una gioia: ti sei mai incazzato di brutto?
«Certo, ma chi si ricorda...».
Non è un bel segnale.
«Sono giovane, solo i vecchi ricordano, io vivo l’oggi. E comunque sì, al Chelsea feci volare il tavolo con tutte le vitamine, bottiglie e altro. Tavolo e sedie, non dico che sfasciai lo spogliatoio, ma quasi».
Per quale motivo?
«E chi si ricorda...».
Aridaje.
«Ti dico quando ho provato dispiacere».
A Como.
«Per quell’orribile secondo tempo. Ero molto amareggiato, la partita era cambiata e non siamo stati capaci di leggerla. Posso anche perdere, ma se c’è stata la prestazione l’amarezza passa più in fretta».
Ormai conta solo il risultato.
«Ho sempre giocato per vincere, se trovo un avversario che mi schiaccia, provo a limitare i danni lottando».
Anche per te è l’Inter la più forte?
«Sì, e subito dietro metto il Napoli. L’altra sera in Supercoppa l’Inter le ha prese, ma è in grado di ripartire subito perché ha solidità, qualità e lo stesso allenatore da anni... Lo dissi all’inizio, Napoli primo o secondo, non si scappa».
Per Conte, immagino.
«Antonio è un martello e inquadra squadra e prospettive in meno di un secondo».
Che rapporto hai con gli algoritimi?
«E che ci faccio? Sono elementi di supporto, possono servire in fase di scrematura iniziale, ma il calcio è fatto di conoscenza diretta. Al Fulham il figlio del proprietario venne da me per suggerire un acquisto. “Mister, ho visto dati e proiezioni, il tal giocatore ha fatto 100 metri col pallone tra i piedi”, disse. E poi che c’ha fatto col pallone?, gli risposi».
Totti ha letto l’intervista: pare che abbia il telefono spento.
Altra risata.
Se tra le tue imprese più belle segnalo quella con il Parma, sbaglio?
«Pepito Rossi in poco tempo fece cose strepitose. Quella non fu una scelta sbagliata».
Mentre altre...
«Ho fatto una bella e lunga strada. Sbagliai a tornare a Valencia dopo che Benitez aveva vinto campionato e coppa. Lo feci per gratitudine, avevo avuto altre offerte. Ricordo che avvisai i dirigenti dei rischi che avremmo corso. Mi garantirono che mi avrebbero protetto se ci fossero stati dei problemi. E invece mi mandarono via nel preciso momento in cui le difficoltà si presentarono».
Nella foto del ’67 che pubblichiamo indossi la maglia del portiere.
«In parrocchia, a San Saba, ci alternavamo in tre. Ma quando andavamo sotto, mi trasferivo in attacco. I primi due anni seri li ho fatti da punta, non la buttavo mai dentro, mi sono arreso all’evidenza».
A chi devi qualcosa o tanto? Mi basta un nome.
«Due. Tonino Orrù a Cagliari e Nicola Ceravolo a Catanzaro».