Quell’Inter-Juve e la profezia del Mago

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Roberto Beccantini
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Non c’è Champions che tenga, almeno stavolta. Inter-Juventus di domenica sequestra la giungla delle locandine. Il derby d’Italia. La polveriera di Calciopoli sempre lì, a portata di miccia. Dall’archivio ho estratto un’edizione che si giocò a San Siro il 25 febbraio 1962. Non una qualsiasi, ammesso che in questi casi, e per questo genere di confronti, si possa scrivere di routine, di banalità seriale. Finì 2-2; finì, avevate dei dubbi?, in una nuvola d’ira. L’Inter sgomitava per il titolo, poi vinto dal Milan; la Juventus, campione in carica, non più. Allenatori, Helenio Herrera e Carlo Parola. Era la decima di ritorno. Perché la ricordo? Non tanto per il tabellino (da 2-0 alla rimonta: Mauro Bicicli al 13’, Gerry Hitchens al 74’, Omar Sivori al 79’, Gino Stacchini all’87’). Quanto per le onde che ne agitarono la trama e l’epilogo.
In ordine sparso: Armando Picchi numero due, terzino di scuola e non ancora battitore libero, come sarebbe diventato contribuendo a ritoccare la cronaca e, invidiosa, la storia. Quindi Mariolino Corso. Numero undici, naturalmente, ma attenzione: con i calzettoni su. I filmati d’epoca lo smascherano. Eccolo, mentre triangola con Bicicli nell’azione del primo gol; rieccolo, mentre sollecita il ciuffo di Hitchens nella punizione del secondo. Le calze rigorosamente raso-ginocchio; e «alla cacaiola» solo più tardi, in onore di colui che, da avversario, gli aveva fornito il pretesto. Omar Sivori.
Omar, già. Straordinaria la sua rete, ad arpionare in tuffo, capitan Achab d’emergenza, una lecca di Bruno Nicolé dal limite. Giampiero Boniperti aveva smesso il 10 giugno 1961, testimone del battesimo di Sandro Mazzola e del 9-1 inflitto ai bebè della «De Martino» morattiana. E John Charles. Il gigante buono. Un altro particolare significativo: bunker, non più carro armato. Nella pancia della Maginot, non più nel cuore dell’attacco. Difensore centrale, come al Bernabeu. Perché sì, «quella» Juventus veniva dal clamoroso 1-0 di Madrid, al Real di Alfredo Di Stefano, Ferenc Puskas e Francisco Gento. Squillo di Sivori. Il 21 febbraio ‘62, ritorno dei quarti di Coppa dei Campioni. A Torino, 1-0 per i blancos. Dunque, spareggio al Parco dei Principi di Parigi. Occhio alla data: 28 febbraio 1962. Appena tre giorni dopo il «Duello».
La classifica recitava: Fiorentina e Inter 38; Milan 37; Roma 35; Juventus, settima, 28. Non pochi, da Firenze in su, avevano ironizzato sull’impegno di Madama, visto il calendario. Viceversa, come ha ribadito la sentenza, la dedizione fu strenua. Al termine, il Cabezon e Habla Habla ripassarono le «virtù» delle rispettive mamme. Sino alla celeberrima profezia (del Mago, e di chi se no?): «La Juve perderà col Madrid, e perderà pure in campionato, non so con chi, ma perderà». Gli almanacchi sono lì, inflessibili: 1-3 Real, 2-3 Bologna, 2-4 Milan, 0-1 Fiorentina, 0-1 Sampdoria, 0-1 Lanerossi Vicenza, 2-3 Udinese, 0-3 Venezia. Morale: le prese da tutti, otto su otto. E dallo scudetto sulle maglie precipitò al 12° posto sul campo. Peggio dell’ultimo Napoli. Corso e ricorsi. E un vaticinio che andò oltre, molto oltre.


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