Si gioca troppo. E' la scoperta dell'America

Leggi il commento alle troppe gare disputate e alle proteste dei giocatori e dei club
Si gioca troppo. E' la scoperta dell'America© Inter via Getty Images
Roberto Beccantini
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Si gioca troppo. La periodica scoperta dell’America è invettiva o omelia: dipende dai pulpiti. L’ultimo Cristoforo Colombo è stato Rodri, gran ciambellano del Manchester City. In sintesi: «Non siamo dei robot, né intendiamo diventarlo. È un calcio, il calcio moderno, sempre meno sostenibile sul piano fisico. Per offrire alla gente qualcosa di più brillante dobbiamo poter riposare». Ginocchio rotto: riposerà fino a primavera. Dicono che il sindacato inglese stia meditando uno sciopero. Non sarebbe la soluzione. Sarebbe un segnale. Forte. E strano. Più ci sono partite, più le rose si dilatano, più i posti di lavoro si moltiplicano: potrebbe un Sergio Campana del terzo Millennio opporvisi? Uhm. E allora? Si gioca troppo. È un allarme che gira da anni. Appartiene al guardaroba del buon senso. Come, per esempio, il taglio ai campionati nazionali. Se si escludono la Bundesliga tedesca, a 18 squadre, e la Francia, che a 18 è scesa la scorsa stagione, Inghilterra, Italia e Spagna non mollano e rimangono incollate a 20. Le Leghe non sono più «ventimila sotto i mari»: sono sopra, implacabilmente. E comandano. La nuova Champions, nel frattempo, è passata da 32 a 36; il Mondiale per Nazioni da 32 a 48; la Coppa del Mondo per club - in programma dal 15 giugno al 13 luglio 2025 negli Stati Uniti - ne coinvolgerà la barzelletta di 32: per noi, Inter e Juventus.

Senza dimenticare la Nations League, il meno nobile dei trofei ma comunque un trofeo. Ha scalzato le amichevoli, ha ucciso l’atmosfera da sabato del villaggio leopardiano che, complice il rito dell’attesa, titillava il fascino della festa. Per tacere di certe Supercoppe domestiche che hanno sacrificato l’atto unico alle pompose, e pompate, «final four», rigorosamente nell’Arabia Saudita. E solvente. Gianni Infantino (Fifa) e Aleksander Ceferin (Uefa) sono legati alle rispettive poltrone, celle che li appagano. Il golpe della Superlega, al netto delle veline, ha fatto il loro gioco e i loro giochi. Attenzione, però, all’overdose: rischia di far scoppiare la bolla. Un panorama da «day after». Qual è, in compenso, il paradosso che ne incerotta la bulimia? Un’incongruenza di fondo, e di casta: i calciatori aborrono, sì, i calendari strapieni, ma non uno che, proprio per snellirli, accetti l’idea di ridursi lo stipendio.

Bisogna essere sinceri: se le agende sono implose, è anche perché sono esplosi gli onorari delle stelle; e, sui mercati, le provvigioni dei procuratori. Non tutti, per fortuna. Il doping aspetta, famelico e goloso, dietro l’angolo. Altro che Clostebol, prima o poi. In aggiunta, dall’eccesso di agonismo spinto non sono nate gerarchie più umane, più calibrate. Al contrario. I ragazzi del Novecento, giapponesi irriducibili, non smettono di celebrare la formula dell’eliminazione diretta, o di rievocare l’impresa dell’Atalanta di Emiliano Mondonico che, non ancora Dea, riuscì a issarsi dalla Serie B - ripeto: dalla Serie B - alle semifinali di Coppa delle Coppe. Il 21 dicembre 2023 la Corte di giustizia europea bocciò il monopolio di Fifa e Uefa. Sentenza che va ben oltre la minaccia della Superlega. Ben oltre. Occhio.


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