Santone, docente di calcio, cittì: quale appellativo preferisce prima di Lucescu?
«Stai esagerando, chiamami Mircea, come hai sempre fatto. E poi perché mi dai del lei per la prima volta in 35 anni? Mi consideri vecchio, eh?».
No, è solo per una questione di rispetto.
«Non mi piace il lei. E poi devi sapere che non ho alcuna intenzione di smettere di allenare, se hai questo dubbio te lo tolgo subito, anche perché è il mestiere che so fare meglio. Anzi, è l’unica cosa che so fare. Quanti anni sono ora? Trenta, quaranta, quarantacinque, ormai ho perso il conto».
Un sorriso. Poi:
«Sai cosa mi dicono a Bucarest?».
Cosa?
«Ma vuoi morire su una panchina o dentro un campo di calcio?».
E tu cosa rispondi?
«Prima mi tocco, poi rispondo che ci sono la passione, le motivazioni, l’entusiasmo e che è troppo tardi per riempire il mio tempo libero con altri impegni».
E così lo riempi con il calcio.
«Non ti puoi immaginare come ancora mi diverta. Dimmi, dove metterei il mio spirito, il mio vigore, tutto quello che ho dentro se non nel calcio? E credimi, la mia gioia per essere tornato a fare il cittì della Romania è enorme».
È il cerchio che si chiude.
«Me lo ha chiesto la gente, ti dico la verità. Pensa che 43 anni fa ero ancora calciatore quando mi proposero di fare anche il cittì della Romania e sai come finì allora?».
Come finì?
«Accettai, costruii una bella Romania, e dopo una vittoria 4-0 contro la grande Austria mi cacciarono».
Ma dai.
«Sì, mi cacciarono per fare posto al figlio del presidente. Sai, quelli erano tempi...».
In cui il partito ti cacciava se perdevi, ma contro l’Austria avevi vinto.
«Te l’ho detto il motivo, vai avanti».
Bene, andiamo avanti.
«Sono rimasto alla Dinamo Bucarest, poi nel ‘90 sono arrivato a Pisa. E ti rendi conto che sarei potuto diventare l’allenatore del Bologna».
Cosa è accaduto?
«Mi voleva Gino Corioni, mi chiamò più di una volta, ma Romeo Anconetani fu più sveglio, e soprattutto più veloce. Un giorno me lo vidi arrivare a Titograd con il contratto tra le mani e lo conoscevi anche tu Romeo, fino a quando non lo firmai non se ne andò».
Che personaggio Anconetani...
«Ti ricordi, si faceva fare il pediluvio in una tinozza nella hall dell’hotel di Volterra dove il Pisa andava in ritiro, o quando all’Arena Garibaldi andava a buttare il sale dentro il campo prima delle partite. E sai cosa faceva in trasferta per non farsene accorgere dagli altri tifosi?».
Sinceramente no.
«Si metteva il sale sopra le scarpe che erano incavate, poi andava sul campo e camminando lo gettava via. Te ne racconto un’altra... Non ricordo bene dove vincemmo, di sicuro era contro una grande squadra. Anconetani venne nello spogliatoio e ci disse: vi piacerebbe parlare, vero? Oggi parlerò soltanto io, perché il Pisa è mio, non vostro».
Altri tempi, caro Mircea.
«Che nostalgia. E il grande Gino (Corioni, ndr) te lo ricordi? Anche con Gino quante lotte, quante battaglie anche dialettiche, io sono sempre stato un uomo della società, ho lavorato sempre per fare il bene dei miei presidenti, anche a costo a volte di prendermi le critiche dei tifosi. E questo perché la cosa più vergognosa del calcio è il fallimento di una società. Romeo, Gino, Moratti? A proposito, sai cosa mi fece Moratti?».
Cosa ti fece?
«Firmai con l’Inter e fecero l’errore di dire pubblicamente che a fine anno sarebbe arrivato Marcello Lippi. Ti puoi immaginare i calciatori: tutti volevano giocare, una baraonda, poi si infortunarono Ronaldo, Simeone e Zamorano e io quando capii che sarebbe stato un delirio andai dal presidente e gli dissi che mi sarei dimesso. Ebbene, lui si rese conto delle mie difficoltà e volle a tutti i costi pagarmi ugualmente e per intero il mio ingaggio. Davvero si dimostrò una grandissima persona. Fammi dire un’altra cosa che sento molto: dove sono finiti quei meravigliosi rapporti umani con i presidenti di allora? E ti aggiungo anche i calciatori. Presidenti e calciatori erano l’anima della squadra. Ora con i fondi non sai nemmeno chi sono i presidenti. È come se il calcio avesse perso l’anima, ecco. Moratti, Agnelli, Berlusconi, le grandi famiglie lo hanno abbandonato, hanno dovuto via via abbandonarlo. E guardate che lo stesso discorso vale per le bandiere: Maldini, Del Piero, Totti, Antognoni, prima la gente si identificava con loro, era una meraviglia, uno spettacolo. E ora? Non le resta che legarsi alla storia e ai colori, è la filosofia del calcio di oggi, ma di sicuro era molto più bello prima».
Ci siamo, tu e l’Ucraina: sai che lo Shakhtar gioca in Champions League domani a Bologna?
«Lo so, lo so, e potrei anche essere allo stadio. Mi piacerebbe, essendo in Italia in questi giorni. L’Ucraina è il mio secondo Paese, per tanti motivi. Perché quello che sta succedendo ti unisce, te lo porti dentro, lo vivi con un’emozione indescrivibile, con un’angoscia che non ti abbandona mai. Poi perché quando fai questo mestiere e vinci anche un piccolo villaggio ti sembra il più bello del mondo. Pensa allora come possa vedere io l’Ucraina dove ho vinto sia con lo Shakhtar che con la Dinamo. Che mi hanno dato la forza di restare, nonostante tutto, perché quella non è solo la gente dell’Ucraina, è la mia gente, quelli non sono solo i miei calciatori, sono anche miei figli».
Chi te lo ha fatto fare di non andare via?
«L’amore per quel Paese e per il calcio. Sono rimasto a vivere fino allo scorso anno a 15 chilometri da Kiev, e la consapevolezza di veder crescere giorno dopo giorno la mia squadra mi ha stimolato anche la salute. E ciò nonostante la gente che muore, i continui bombardamenti, le case distrutte. Ma io sono fatto così, volevo aiutare queste persone e fare capire loro che la vita continuava, che dovevano essere più forti anche della guerra, della miseria e che c’erano anche altre cose, delle quali avevano tanto bisogno. Ho avvertito dentro di me questa grande responsabilità, e mi sarei sentito un vigliacco se le avessi abbandonate».
Certo che deve essere quasi impossibile fare calcio in quelle condizioni drammatiche.
«I calciatori giocano prima di tutto per la propria patria, senza spettatori, sapendo che tutte le partite potrebbero essere interrotte da un momento a un altro nel caso in cui dovessero suonare gli allarmi. Poi le coppe devi andarle a giocare all’estero, e così vale anche per la nazionale, con quei ragazzi che con il cuore a pezzi devono lasciare le loro famiglie, sapendo che sono in pericolo. Fammi usare un vocabolo rumeno, “supapa”, perché voglio rendere bene l’idea di cosa sia fare calcio in tempo di guerra».
Mircea, facciamolo capire anche ai lettori il significato di "supapa".
«Prendi un tubo pieno di acqua, quando apri la valvola l’acqua schizza tutta fuori. Ecco, "supapa" vuole dire valvola di scarico, vuole dire un rifugio che ti consente giocando a calcio di dimenticare per un paio di ore la distruzione che vedi attorno, il dolore che hai dentro. Sì, sarà così anche per i calciatori dello Shakhtar».
Che è una squadra molto diversa da quella che allenavi tu, giusto?
«Hanno cambiato molto, è vero, dopo l’inizio della guerra i brasiliani sono andati via, ma se fossi il Bologna starei molto attento ugualmente, perché nello Shakhtar ci sono giocatori bravi, di talento, molto rapidi, che quando ripartono sono molto pericolosi. Non è più lo Shakhtar di un tempo, ma resta una buona squadra. Che anche a Bologna giocherà per il suo Paese, perché te lo ripeto, questi sono i primi sentimenti che un calciatore ucraino si porta dentro il campo, diventando più forte di quelle che sono le sue potenzialità».
Oltre a Bondarenko, chi sono i due calciatori dello Shakhtar che tu consiglieresti alle società italiane?
«Sudakov, un centrocampista di 22 anni, e il difensore Matvijenko. Potrei suggerire anche due calciatori della Dinamo Kiev?».
Puoi.
«Shaparenko, centrocampista, e Vanat, che è un attaccante del ‘2002».
Già che ci sei, avrai anche un calciatore rumeno da indicare, oltre a Mihaila e Man del Parma che già conosciamo.
«Olaru dello Steaua, può fare sia il centrocampista che il trequartista».
Mircea, c’è in Italia un allenatore che ti piace più di altri?
«Per me gli allenatori bravi sono quelli che rimangono tanto tempo in una squadra e allora in questo momento ti dico Simone Inzaghi, che sa fare bene il suo mestiere, sa farsi amare dai propri calciatori e sa anche mantenere sempre i toni bassi e una grande educazione».
Tu conosci Dovbyk, l’attaccante ucraino della Roma.
«L’ho allenato, è un bravo ragazzo e un gran bel calciatore, è evidente che avrà bisogno di tempo per ambientarsi. È uno che fa gol e che ha grandi colpi».
Ascolta, tu Mircea hai almeno un rimpianto?
«Come posso avere un rimpianto io che non cambierei la mia vita con nessun altro al mondo».