Addio a Eriksson: buon viaggio amico Sven

L’infanzia a Torsby, la carriera da terzino, l’impronta di Happel, Michels e Paisley, i consigli di Grip. E poi l’Uefa con il Göteborg, il Benfica e i 7 trofei con la Lazio
Stefano Chioffi
8 min

ROMAHa girato il mondo con i suoi occhiali tondi da professore universitario. Sempre in giacca e cravatta. Sven Goran Eriksson ha saputo dare un senso compiuto alla vita e a un lavoro che ha amato come i boschi e le vallate della contea di Värmland, dove da bambino aveva imparato a sciare: è stato il punto di partenza del suo viaggio. Contenuti e dettagli avevano un valore sacro nei suoi ragionamenti, per questo motivo era stato soprannominato il rettore di Torsby. Disegnava schemi sul quaderno anche in vacanza, nella sua villa a Cascais, davanti alle onde dell’oceano Atlantico, tra Praia da Conceição e Praia da Duquesa. In ogni angolo, da Göteborg a Roma, da Londra a Manila, è riuscito a lasciare in eredità la sua eleganza, la sua dolcezza, il suo stile. Non è mai stato un divo. Gli piaceva camminare tra la gente comune. Aveva saputo conservare la semplicità di un’infanzia trascorsa a Sunne e a Torsby, in Svezia, con quegli inverni infiniti e ricoperti di neve che sembravano quadri. Imprimere un significato a ogni giorno era stato l’insegnamento dei suoi genitori: il papà, che si chiamava sempre Sven, guidava gli autobus, e la mamma Ulla faceva i doppi turni in un’azienda tessile. 

Eriksson, un fuoriclasse

Ha dimostrato che si può essere un fuoriclasse anche conservando il dono della normalità: nei momenti felici e anche durante le cicatrici di un percorso finale che l’ha costretto a lottare con una malattia aggressiva, scoperta già in stato avanzato, mentre era in tuta e faceva footing in Svezia. Un malore, un giramento di testa, sembrava un calo di zuccheri. Le analisi e il verdetto dei medici. La capacità di lottare contro quel nemico invisibile e di provare a demonizzarlo, inviando messaggi positivi: da coach e riferimento anche per chi stava affrontando le sue stesse terapie. 
A Formello, quando allenava una Lazio stellare, che riusciva a battere il Manchester United di Alex Ferguson e David Beckham, si fermava spesso a fare benzina con la sua Volvo in un piccolo autogrill. Faceva colazione: cappuccino e cornetto. Come un cliente qualsiasi. Il contatto con le persone rappresentava un’altra delle sue ricchezze. Era timido, i complimenti lo facevano diventare rosso. Sapeva ascoltare tutti. Il successo non lo aveva spinto sulla luna. Dialogava, si confrontava. Equilibrio, sostanza, carisma. Non sprecava le parole, come succede ai veri leader. Sapeva far convivere la modernità dei suoi schemi con un’educazione antica. Gli amici lo chiamavano Svennis, l’unico a vincere il famoso double, titolo e coppa nazionale, con il Göteborg, il Benfica e la Lazio. In gioventù era stato un terzino, prendeva in consegna l’ala, aveva un fisico da maratoneta: calzettoni arrotolati intorno alle caviglie, i parastinchi non erano stati ancora inventati. Giocava nel Torsby e nel Västra Frölunda, aveva dovuto smettere a ventisette anni per un infortunio al ginocchio. Da allenatore aveva in testa, come fonte di ispirazione, il Feyenoord di Ernst Happel, l’Ajax di Rinus Michels e Stefan Kovacs, il Liverpool di Bob Paisley.

L'inizio da allenatore

Il suo maestro è stato Tord Grip. Cominciò a fargli da vice nel Degerfors: era il 1976. L’Europa ha iniziato a studiare il suo calcio più avanti, quando lavorava nel Göteborg: pressing, gioco elettrico, a uno o due tocchi, bellezza e divertimento. Nel 1982 conquistò la Coppa Uefa contro l’Amburgo di Magath e Hrubesch. Era la squadra di Hysen e Stromberg, di Corneliusson e Nilsson. E così, nell’estate in cui l’Italia di Bearzot vinceva il Mondiale in Spagna, Eriksson si ritrovò su un aereo per Lisbona, chiamato dal Benfica e scelto da un mito come Eusebio, affascinato dalla qualità espressa dal Göteborg. Conquistò il campionato al primo tentativo: ventidue gol di Nené, quattordici di Filipovic, nove di Diamantino Miranda, sei di Humberto Coelho, cinque di Carlos Manuel.

Dal Benfica alla Roma

Dal Benfica alla Roma: entrò a Trigoria nel 1984 con una valigetta in pelle. La cena con l’ingegnere Dino Viola, la firma sul contratto, il compito di sostituire Nils Liedholm, uno dei grandi ambasciatori della Svezia insieme con Nordahl e Gren. Nella Roma, all’inizio, aveva come collaboratore Clagluna. Tre anni, una Coppa Italia, la stima di Ancelotti, le rovesciate di Pruzzo, l’universalità di Boniek, la domenica da incubo con il Lecce. E poi la Fiorentina: l’artista Baggio, il repertorio di Ramon Diaz, la crescita di Borgonovo, la personalità di Dunga, le chiavi della difesa consegnate a Hysen. Ha scoperto e lanciato talenti. Nel secondo capitolo dell’avventura a Lisbona, nel Benfica, aveva valorizzato Aldair e Thern, Valdo e Vitor Paneira, Hernani e Magnusson. A Vienna, nel 1990, aveva fatto soffrire il Milan di Sacchi nella finale di Coppa dei Campioni, persa in contropiede: lancio con il contagiri di Van Basten e gol di Rijkaard. Il suo era un calcio scandito dalle intuizioni: nella Samp aveva trasformato Mihajlovic in un difensore centrale e Gullit in un mediano-regista. Splendido il feeling con la famiglia Mantovani. Considerava Mancini e Sinisa come due figli: un’amicizia che era diventata affetto.

La Lazio più forte della storia

Intorno a loro ha costruito la Lazio più forte della storia. Ogni tanto, anche nell’ultimo periodo, gli piaceva ricordare le cene con il presidente Sergio Cragnotti: si vedevano in un ristorante dei Parioli oppure nella residenza del finanziere, in una traversa di via Veneto. Sette trofei, tra il 1998 e il 2000: uno scudetto, il trionfo di Birmingham in Coppa delle Coppe contro il Maiorca, la Supercoppa Europea alzata a Montecarlo con un gol di Salas al Manchester United, due Coppe Italia, due Supercoppe. Nel 2000, pochi mesi prima della telefonata arrivata da Londra, in cui gli veniva offerto la guida dell’Inghilterra, si era permesso di dare un consiglio a Cragnotti: «Dottore, le squadre che vincono tanto vanno rinnovate». Non viveva di ricordi, ma sapeva conservarli. Durante la malattia ha deciso di tornare negli stadi della sua vita: è stato all’Olimpico, a Wembley, a Marassi, al Da Luz, all’Ullevi. Anche ad Anfield Road hanno organizzato una festa in suo onore. Ha voluto salutare i tifosi di ogni lingua e di ogni paese: cantare con loro. Ringraziarli a mani giunte, con il sorriso. Senza lacrime. In quei giri d’onore ha cercato altre emozioni. Le energie stavano finendo: «Vi ringrazio, ricordatevi di volere bene alla vostra vita: amatela e rispettatela». Le parole di una persona di famiglia. È stato il ct dell’Inghilterra, del Messico, della Costa d’Avorio e delle Filippine. Ha allenato per quarantatré anni, ha vinto diciannove trofei, ha chiuso da direttore sportivo del Karlstad e nell’ultima intervista aveva espresso un desiderio: «Vorrei essere ricordato come un uomo perbene». Lassù, in quella nuvola, nell’abbraccio con i suoi amici Eusebio e Sinisa, avrà già trovato la risposta. Ci sono viaggi che non finiscono.


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