Bilancio Real Madrid, una lezione per la Serie A

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Alessandro F. Giudice
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Il muro del miliardo di ricavi infranto dal Real Madrid non ha solo valore simbolico. È il coronamento di un processo di trasformazione da squadra in azienda globale, trainata dal primo brand calcistico del pianeta.
Nel 2000 il Real produceva ricavi per 118 milioni, meno di Juve (139) e Milan (141). In 24 stagioni li ha decuplicati chiudendo il ventiduesimo bilancio in crescita.
Osservando la composizione dei ricavi, i diritti tv (pure importanti) rappresentano ormai la terza voce contribuendo solo per il 16%. La prima, sponsor e partner commerciali, è ormai il 40% del totale e la più importante anche sul piano qualitativo perché garantisce introiti stabili, ricorrenti, non dipendenti dai risultati sportivi e il Real li ha sempre accresciuti, anche nelle stagioni (poche) in cui non ha vinto nulla. La seconda voce sono i proventi da stadio, raddoppiati fino all’incredibile cifra di 300 milioni. Pensate che Inter e Milan (i club italiani che incassano di più) hanno toccato al massimo quota 70-80. Il dato del Real polverizza anche i livelli pre-ristrutturazione del Bernabeu, dimostrando che uno stadio moderno fa tutta la differenza del mondo in termini di potenziale economico. Nessuno può pensare di competere senza un impianto, non dico di proprietà che sarebbe il meno, ma adatto a offrire una proposta di valore all’altezza degli standard internazionali.
Anche il 23/24 del Real, come l’anno precedente, chiude in utile perché le aziende sane fanno utili e l’industria calcio non può prescindere da questa regola basilare. Che non sia indispensabile perdere soldi per vincere è dimostrato dalle ultime due Champions alzate coi bilanci a posto, ma non solo. Negli ultimi 20 anni, il club spagnolo ha prodotto regolarmente utili operativi al lordo degli ammortamenti (quindi cassa) variabili tra 80 e 200 milioni. Il debito è quasi zero, ad eccezione di quello per finanziare l’investimento nello stadio (1 miliardo) che la generazione di cassa consentirà di ripagare in pochi anni.
Il Real non ha azionisti facoltosi alle spalle ma non ne ha bisogno. Non ha mai fatto aumenti di capitale perché la proprietà è polverizzata tra oltre 90 mila soci mai chiamati a contribuire in misura rilevante alle spese, ognuno dei quali spende 150 euro l’anno. 13,5 milioni in totale: una goccia nel mare del miliardo di ricavi.
Se il Real è un caso straordinario di successo si deve alle capacità imprenditoriali e strategiche di Florentino Perez che lo guida dal 2000, tranne un breve intervallo. Ma il successo non arriva per caso.
Nel 2009 riorganizzò la società in 3 aree (sport, marketing, finanza), costruì una struttura manageriale adatta ad affrontare i cambiamenti dell’industria, puntò sul brand e su nuove linee di business, ma soprattutto trasformò i tifosi in consumatori. Erano anni in cui nuove tecnologie, globalizzazione, social iniziavano a cambiare il calcio, mentre la Serie A smarriva il contatto con la nuova realtà perdendo il treno della crescita. Il risultato è che i nostri club fanno perdite dovendo competere con chi ieri fatturava meno di Juve e Milan ma oggi ricava oltre due volte e mezzo.
Un’analisi di The Economist annuncia ora due rivoluzioni: sul lato dell’offerta, si passerà da tv domestiche tradizionali a piattaforme di streaming globale; su quello della domanda emerge un nuovo consumatore, meno legato all’appartenenza di squadra, più attratto da contenuti e star. Vincerà chi salirà sulle piattaforme globali (Amazon, Netflix) allestendo un prodotto al passo coi tempi; chi perde si allontana dal gruppo di testa. Questa, oggi, è la sfida: si vince con idee e competenze manageriali, non con liti di corridoio.


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