Era Fabio Melillo, un uomo, un padre, un allenatore e un conoscitore del calcio femminile. Era il calcio femminile, come pochi uomini dell’ambiente, se non come nessuno: non si è improvvisato mister delle donne, né riciclato, né reinventato. Era il calcio femminile forse anche come poche donne. Era Fabio Melillo, e ora è un vuoto, un buco. È morto a 58 anni di un cancro che in pochi mesi lo ha illuso di salvezza e deluso a campionato finito, annunciandogli, con un inesorabile, lento abbandono del corpo, che anche la sua personalissima stagione stava per finire.
Era Fabio Melillo, barba e capelli biondi, o un po’ rossicci, gli occhi azzurri, limpidi e sguardo sincero, sembrava un vichingo ma era un gladiatore. Aveva preso la Res Roma e dalla C, l’aveva portata in Serie A, una promozione all’anno, e poi nella massima serie si era salvato per tre stagioni. Ai tempi il calcio femminile era figlio di un dio minore, non era quello di oggi, non c’erano i grandi club, Melillo è stato uno dei pochi a crederci, ad amarlo e investire se stesso, le sue abilità di tecnico, i sentimenti. La Res si vestiva da Roma, ma non era la Roma. Fabio però si sentiva la Roma e le sue ragazze si sentivano la Roma. La sua Res aveva un orgoglio giallorosso enorme, come il suo viscerale. Ha creato una sorta di miracolo in quegli anni. Vinceva scudetti con la Primavera (tre) e poi le stesse ragazze debuttavano giovanissime in serie A. Chi non ricorda la “minuscola” Giadina Greggi? Non solo lei. Melillo aveva messo su un gruppo unico, quelle del Duemila - Simonetti, Caruso - tutte poi volate nei top Club oltre che in Nazionale. Non aveva solo intuito, ma una sensibilità da rabdomante. Scovava fiori rari o preziosi e ne aveva cura fino a farli sbocciare. Da ognuna delle sue ragazze ha sempre saputo tirare fuori il meglio. Perché sapeva comunicare con la diversità o meglio l’unicità di ognuna. Melillo era un condottiero.
Ha ceduto la sua Res, solo perché “diventava” la Roma, che comprava titolo e gran parte della squadra. Per lui era come ricongiungere due gemelle separate alla nascita. E a lui la Roma affidò la Primavera, perché era un maestro. Infatti ha vinto tre volte il tricolore e una volta lo ha mancato ai calci di rigore. Non è mica perdere questo, mister! In questo modo gli avevamo fatto i complimenti. «Le ragazze sanno emozionare, non è poco nel calcio di oggi. Cerchiamo di dare un segnale vero di sport e di appartenenza», così aveva risposto.
Era Fabio Melillo, quello andato alla Ternana quando la voglia di tornare ad allenare le grandi aveva surclassato l’attesa di un sogno che non si avverava: la panchina della Roma. Lo ha potuto fare perché, al di là di un amore incondizionato nei confronti del club giallorosso, credeva in quello che faceva, nel suo lavoro. Lui credeva. Anche quando a febbraio gli hanno diagnosticato il cancro, dicendogli che al 90% si sarebbe salvato, Fabio ha creduto. Peccato che sia entrato in quel 10% restante. Qualcuno lo dovrà pur fare quel 10%, ecco ora c’è la sua firma. Ma fino alla fine ha creduto di stare nel 90%, e di farcela. Per questo non ha smesso mai di allenare le donne della Ternana, di andare alle partite, in casa e in trasferta, sempre. Con una sensibilità rara e molto femminile, non ha gravato delle sue pene le calciatrici, lui i problemi era abituato a risolverli non a crearli. E le ragazze vincevano per lui, dalla Res alla Roma alla Ternana. Perché questo lui insegnava: a credere che al 90% si vince, sempre. Quasi sempre se oggi scriviamo che “Era Fabio Melillo”.
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La cerimonia per salutare Fabio Melillo, in forma laica, sarà domani alle 10,30 alla Linkem Arena in via Tor Bella Monaca 497.
Ai figli e i familiari tutti le condoglianze del Corriere dello Sport.