Eziolino Capuano esclusivo: "Allenare è la mia vocazione"

L'incontro in redazione con il tecnico del Taranto, ormai fenomeno cult, che si racconta alla sua maniera
Antonio Giordano
11 min

La storia comincia da lontano, nella Provincia brulla e però gioiosa, e poi emerge, esplode, deflagra, cavalcando i social: c’è un uomo per ogni stagione (calcistica) che (in)consapevolmente è diventato un mito, sta fuori dagli schemi pur manipolandoli con cura, e a modo suo è diventato un rivoluzionario del linguaggio corrente. Si può essere Eziolino Capuano soltanto essendo Eziolino Capuano, vivendo in aforismi che gli appartengono o che rimodella a modo suo, scuoiando i luoghi comuni o anche abbracciandoli, attraversando la periferia del calcio però ritrovandosi poi illuminato di luce propria, di quella natura che a volte reclama i sali e altre una brutale riflessione: se non ci fosse, bisognerebbe inventarselo.

Eziolino Capuano, un uomo baciato dalla popolarità post-moderna.

«E questo succede per il mio modo di essere. La figura del personaggio mediatico non mi ha agevolato, ma sono fiero di me stesso. Mi sono fatto una bella famiglia, ho guadagnato bene e fatto quello che volevo, assecondando la mia vocazione: perché fare l’allenatore è come fare il prete».

Tra una metafora e l’altra, Capuano ha fatto pure i capelli bianchi.

«Ho cominciato da ragazzino, quando smisi di giocare per un infortunio. Ma comunque sono nato prima e ho vissuto ciò che altri non hanno vissuto. Io c’ero all’epoca dei gettoni telefonici, stavo in fila per chiamare a casa una ragazza, ora sono schiavi del cellulare».

Ecco seriamente un uomo che non si è mai preso sul serio.

«Sono me stesso, con gli errori commessi. Ma il mio nome non è mai finito in alcuna nefandezza, semmai solo in situazioni goliardiche, che sono state amplificate e hanno pregiudicato la mia carriera».

A proposito, c’è una pagina su Facebook, «Eziolino Capuano, in ognuno di noi non possono albergare nefantezze», scritto proprio così: ci scherzano su...

«Conosco l’amministratore ma io non sono social. Non mi interessano, non mi servono i clic. Io voglio altro: la vittoria più bella per me è stata andare al reparto di Oncologia infantile di Taranto. Sono uscito di là piangendo. E ho chiesto al mio club di mandare la 10 al primario: il vero fenomeno è lui. La sera ho portato la squadra a un quartiere di Taranto che mi sta a cuore, il Paolo VI. Il calcio è aggregazione». 

Cerchiamo un aggettivo adatto: empatico?

«Ci sta. Ma sono serio, con grandi principi. Chi parla di Capuano dovrebbe conoscerlo. Non sto simpatico a tutti, ma va bene lo stesso».

Un tipo coraggioso.

«Il coraggio non è altro che l’elemento che convive con la paura, dalla quale non bisogna farsi attanagliare».

Ha detto di sé: il personaggio è diventato superiore all’allenatore.

«E anche l’uomo è superiore al tecnico. Ho una discreta cultura, che ho ereditato da mio padre. Il calcio per me è l’attesa: l’attesa del sabato del villaggio di Giacomo Leopardi. Lo vivo nella sofferenza. Se sto vincendo tremo, ho l’incubo del pareggio».

Un uomo del Sud.

«Modena è stato il mio Nord. Coerente anche lì, andai in una situazione drammatica. Poi finisco in Belgio: Paratici lo dice a Imborgia. Un giorno venne il team manager e mi chiese perché facevo giocare un calciatore e non un altro. Gli dissi: aspetta un attimo. Andai in sede e mi dimisi».

Mai banale.

«Mi piaccio moltissimo così».

Se tornasse a nascere rifarebbe Eziolino Capuano.

«Ma alcune volte no. Vedo cose di cui mi vergogno, come quando rivedo scene del passato. In quel caso, penso a Carletto Mazzone e lo cito: mi sembro il gemello scemo. Ma quello è l’istinto. Però ora ho esperienza e gestisco diversamente situazioni complicate. Io studio, mi applico nella ricerca di innovazioni».

Caso mai, rinascendo, farebbe un po’ il “politico”?

«Ma no. Con tutte le ca... che mi sono scappate. Se fossi stato diverso adesso starei su qualche panchina di Serie A, così, impostato, petto in fuori».

Ci sono due grandi allenatori, Allegri e Mourinho, che stravedono per lei.

«A me piacciono le persone che possono arricchirti. In questo caso, siamo di fronte a due mostri sacri dell’intelligenza umana. Max lo conosco da quando giocava con Camplone, allenatore Galeone; con Mou ci fu il primo contatto ad Appiano Gentile, nell’anno del triplete, quando andai come allievo del Supercorso. José andrebbe clonato, il più intelligente al mondo. Ma io sono amico di Antonio Conte, a Roberto De Zerbi voglio bene come a un figlio».

Vivere dentro le etichette limita?

«Mi davano e mi danno del difensivista. Ma il mio calcio è equilibrato e sfido chiunque a dire che io non voglia la riaggressione immediata. Poi se ne escono con l’autobus, il pullman, la Croce Rossa davanti all’area. Tutte stronzate».

Che demolisce a modo suo...

«Facile: c’è questa moda del tiki-taka, della costruzione dal basso che nel 6,88% dei casi ti consente di riandare su mentre nel restante 93,12% ti fa rubare la palla. Cioè, per rompere le due catene in opposizione ti resta solo meno del 7%. Però se non ci provi sei un allenatore superato, antico. Il calcio è semplice, come dice Allegri, uno tra i più vincenti: e qualcuno si permette di contestare uno dei più vincenti. Pensa tu!».

L’allenatore è come un bravo chef, la frase è sua.

«Io non ho mai avuto grandi squadre e quando m’è capitato di avere squadre normali le ho trasformate in grandissime. E non parlo di campioni. La Sambenedettese la presi penultima, arrivo secondo ma il presidente mi nega i playoff: io alleno ancora ma lui è sparito dal calcio. Ad Avellino, storia recente, non c’era nulla, lo porto nei playoff e non sono riconfermato. Io zitto, muto. Poi avranno speso 40-50 milioni e stanno ancora in C, con un presidente che ha potenzialità enormi».

Fare il capopopolo le piace.

«Me lo posso permettere, perché vivo in funzione della gente, alla quale i calciatori devono rispetto».

Detesta gli orecchini.

«Nella vita privata, ognuno fa quel che vuole. Ma se rappresenti un club e i suoi tifosi, devi rispettarli».

Ridirebbe mai più quella frase su Mertens e rifarebbe mai quel “numero” nello spogliatoio di Arezzo?

«Io Mertens non sapevo neanche giocasse al calcio. C’era Insigne all’apice e mi chiedevo: ma quando gioca questo? E venne fuori, in tv, la frase sulle sette-otto partite. Io qualcuno in A e in Nazionale l’ho portato, quando vidi Parisi, per dirne uno, me ne accorsi subito. Ma ogni volta tirano fuori quell’episodio. Ad Arezzo sono stato, invece, vittima di una carognata e quel giocatore che registrò il mio sfogo e lo mandò in circuito ora fa l’allenatore: gli auguro non gli succeda che un suo atleta faccia quel che fece lui. Quella cosa mi fece male».

Come si fa l’allenatore?

«Devi gestire trenta elementi, devi essere autorevole e autoritario. Devi essere credibile, altrimenti sei un fallito. Ma devi anche essere riconosciuto tale, altrimenti resti una brava persona. Il tecnico si divide in due specie: c’è l’allenatore e c’è l’accompagnatore. Uno non dorme, deve dare una spiegazione al barista, alle famiglie che fanno sacrifici per andare allo stadio; l’altro si siede in panchina e aspetta lo stipendio». 

Cosa farà da grande Eziolino Capuano?

«Ho l’entusiasmo di un bambino, cambio, mi evolvo, non sono mai quello dell’anno prima».

Sarebbe stata una brutta vita senza essere Eziolino Capuano.

«Senza ombra di dubbio. Conosco la dignità e la coerenza, pure la schiettezza. Se fossi stato quello di adesso all’inizio di questo secolo, avrei fatto una carriera diversa».

Dove vuole arrivare con il Taranto.

«Ho fatto riacquistare a questo popolo bellissimo il senso di appartenenza. Il programma è triennale, cerchiamo di arrivare ai playoff. E abbiamo giocato ogni quattro giorni, campo neutro, porte chiuse: i nostri 33 punti valgono di più. Non ci poniamo limiti però i grandi meriti sono di Massimo Giove, il presidente: insieme abbiamo costruito un giocattolo che vuole avere un futuro. Siamo davanti a Catania e Benevento, un punto dietro l’Avellino: ci sono società che sono andate fuori budget».

È tornato a Taranto dopo 21 anni.

«L’ho rivoluta. Arrivai con Pieroni, venivo da campionati vinti ad Altamura, con la Cavese, con il miracolo Puteolana. Mi mandarono via quando ero ad un punto dall’Ascoli, ero un ragazzino di 31 o 32 o 33 anni. Non riuscivano a esonerarmi, poi lo fecero di giovedì, con i tifosi che mi portarono in trionfo. Quando mi ha chiamato Giove, mi sentivo dire: ma dove vai? Ma io dovevo riconquistare qualcosa che mi era stato scippato. Allo stadio erano in trecento, con me alla prima partita con il Foggia, subito in tredicimila».

Quinto in classifica, 27 gol fatti e 16 subiti: Allegri si chiede come abbia fatto con numeri così.

«Vince chi ne prende di meno. La Juve Stabia sta stracciando il campionato e ne ha subiti solo 6. Noi siamo attenti nella fase difendente, non solo in quella difensiva: conosciamo la sofferenza. Imbarcate non ne prendiamo e anche farcene due è difficile».

Il calcio le ha dato?

«Soddisfazioni illimitate. E qualcosa mi ha tolto. Prima d’ogni partita lo dico sempre ai ragazzi: sto entrando in sala rianimazione, scherzandoci su: mi fanno l’anestesia e non so se esco vivo o morto».

Ma ci pensa mai alla serie B?

«Ma no, il calcio è bello ovunque. C’è gente che in B c’è stata, di passaggio, e ora vende le pizze. Meteore».

 


© RIPRODUZIONE RISERVATA