La Premier nel deserto

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La Premier nel deserto© ANSA
Alessandro Barbano
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Dobbiamo dirla tutta e non solo gridare “Mamma, gli arabi!”, come si sente fare in questi giorni. Se invece di venire a giocare contro Frosinone, Empoli, Sassuolo e Verona, al giovane Gabri Veiga fosse stato offerto di sfidare, in un campionato europeo, Psg, Real, Barcellona, Liverpool, Bayern e Chelsea, e mettiamoci pure la Juve, l’Inter e il Milan, il ventunenne avrebbe ugualmente accettato l’offerta dell’Al-Ahli? Certo, dodici milioni luccicano più di due milioni e 200mila euro. A ventun anni, poi, il sacrificio si può fare. Però questa ennesima sconfitta del calcio europeo dice una cosa: che gli arabi non stanno costruendo un’altra di quelle montagne artificiali di neve con cui a Dubai ricreano in scala il mondo degli altri, perché gli altri poi vengano a vedere l’effetto che fa nel Mondiale per club del 2025. No, gli arabi vogliono sedersi al tavolo e giocare con gli altri alla pari, anche se alla pari si fa per dire, perché le loro fiches sono sei volte quelle degli altri. Gli arabi vogliono fare della Saudi Pro League la sesta Lega Top, e di questo passo rischiamo che diventi la prima. Perché se un talento non ancora convocato in nazionale decide di giocare nel deserto le sue chance, vuol dire che molti altri suoi coetanei lo seguiranno.

L’hanno già fatto, o lo stanno per fare, allenatori, preparatori, match analist, manager, procuratori e, presto, perfino giornalisti. Il tempo di imparare la lingua e via. Così l’egemonia del calcio europeo sta per finire in maniera traumatica. Non perché un nuovo soggetto è cresciuto affiancando e rafforzando il sistema, ma perché lo tsunami di una globalizzazione mal governata ha invaso l’Occidente con la forza d’urto dei petrodollari, proprio mentre l’Occidente si prepara a rinunciare drasticamente ai combustibili fossili. È una guerra planetaria che si gioca senza risparmio di colpi, e ognuno con le armi di cui dispone. Ecco perché dobbiamo guardarci indietro e riflettere sui passi falsi compiuti. E tra questi quello di una Superlega che nasceva dentro una logica corporativa di un sistema chiuso, per reagire disperatamente alla crisi riproducendosi da sé. Rimedio sbagliato, ma frutto di un’intuizione giusta. Quella di chi, e tra questi proprio Andrea Agnelli, cercava di spiegare che il calcio arroccato sotto il campanile sarebbe stato schiacciato dalla caduta della torre campanaria all’arrivo del terremoto.

È quanto sta accadendo. L’attacco del capitale finanziario arabo non inaugura una competizione tra due modelli, ma è un’invasione di campo che può fermare la partita, per farla poi ripartire con un altro arbitro e con nuove regole. Che di questo si tratti lo testimonia la dimensione strutturale della crisi del calcio europeo, che investe ormai anche i campionati e i club più forti, e di cui nuovi travolgenti effetti sono in arrivo. Per reagire bisogna fare almeno l’Europa dei calciatori, visto che quella dei popoli è ancora di là da venire. Aprire una frontiera di collaborazione solidale in grado di difendere il fortino, non con il fossato della Superlega, ma con il ponte levatoio aperto a chiunque, alle condizioni della nostra civiltà del lavoro, della politica e dello sport. Se ne può discutere?


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