Certo nessuno se l’è sentita di urlare santo subito, ma fino a un millimetro da quel grido l’Italia vedova e orfana di Gianluca Vialli ci è arrivata. È un sentire nazional-popolare dei più sani e dei più sinceri, che smuove i migliori sentimenti e rimuove le peggiori pulsioni, le ben note vergogne di campanile e di bandiera della serie devi morire, che così tante volte hanno qualificato clima e ambiente nel modo più miserabile. Stavolta no, stavolta la malinconia e la compassione hanno spazzato via alla viva il parroco le bassezze peggiori, lasciando sul campo un Paese decoroso e guardabile, persino consolante, persino rassicurante. C’è ancora spazio e tempo, a quanto pare, per piangere e rimpiangere tutti assieme un ragazzo di 58 anni, martire del cancro, caduto con troppo anticipo dopo una vita spesa bene. Certo non la vita di un santo subito, come in piazza San Pietro con sfogo ormai stereotipato, quasi a gettone, hanno preteso di battezzare all’istante quella di Ratzinger. Ma certo una vita. Buona e piena, con tutto il suo corredo di alti e di bassi, di bello e di brutto, di leggero e di pesante, come si conviene a una vita vera. Gianluca manca a tutti, Gianluca inumidisce il ciglio all’Italia intera. Persino al Regno Unito, se vogliamo aggiungerci anche questo export di commozione e di lutto, con tanto di pellegrinaggi fiorati allo stadio del suo Chelsea. Ma lasciando agli inglesi il Vialli inglese, da noi c’è quanto basta per parlare di un vero dolore di massa. Non è serio e neppure bello misurare i dolorifici, ma abbiamo appena orecchiato e intravisto quello che è successo in Brasile per Pelé: senza aggiungerci troppo, in scala ridotta, con le debite proporzioni, da noi sta succedendo qualcosa di simile. Potremmo chiederci perché, come sia possibile, ma è tempo perso e fatica sprecata: è così perché a conti fatti l’Italia si scopre ad amare, più di quanto magari immaginasse essa stessa, il suo Vialli così umano e così sfortunato. Un bravo ragazzo, un italiano per bene. Un uomo di cui nessuno si vergogna, nemmeno parlandone da vivo. A Genova, dove ha segnato la storia cittadina con lo scudetto della combriccola Boskov, proiettano foto e slogan sulle facciate dei palazzi istituzionali. In Rai danno subito il docufilm a tema. Si raccolgono le memorie e le testimonianze dei vecchi compagni, da Lombardo a Vierchowod a Lanna. Gli inviati dei tiggì vanno a scartabellare in tutti i luoghi della storia, partendo dall’oratorio di Cremona, passando per Genova e per Torino gobba, fino agli studi televisivi in cui commentava senza banalità, fino dentro la Nazionale, dove faceva da padre e da esempio, lui perenne sbarbato di spirito e di temperamento. Cittadini e tifosi anonimi tirano fuori vecchi ritagli di provincia, foto autografate, il ricordo di quella volta che Gianluca strinse la mano come una persona normale, altro che i tatuati del giorno d’oggi…Che strano. Negli ultimi tempi ci siamo fatti amaramente la bocca con la morte dei grandi numeri, su larga scala, partendo dal Covid e arrivando alla guerra, realtà assurde in cui l’uomo singolo è solo una trascurabile unità dell’immane somma. Abbiamo poi affrontato la full immersion nelle morti nobili e clamorose, proprio nell’ultimo anno, in cui l’addio a Papi, O Rei e Regine diventa evento epocale e mondano, tutto da mettere a verbale sui libri di storia. Improvvisamente, con Vialli l’Italia riscopre la malinconia unica della morte domestica e familiare, che non tocca legami di sangue, ma certo le corde del cuore. La morte semplice che supera le cerimonie e le convenzioni, fermandosi al livello del dispiacere genuino. Se è vero che quando ce ne andiamo ci lasciamo dietro quanto abbiamo seminato, la sensazione è che Vialli abbia seminato parecchio bene. Manca alla sua famiglia e manca ai suoi tifosi, ma dopo tutto manca anche a chi non ha mai guardato una partita e mancherà persino ai suoi avversari. Come ci piace dire a titolo di consolazione, qualcosa resta, niente sparirà del tutto. Basta vedere come è provato Roberto Mancini, il bello e il fortunato nella combriccola Boskov degli anni migliori: guardarlo ora e non vedere più il Ct titolato, il bell’uomo di successo, ma piuttosto un amico solo, l’amico smarrito, dopo aver perso i due grandi appoggi nel giro di un mese, Sinisa e Gianluca, i veri compagni di gioco e di giochi. Mancini e tutti gli altri, Mancini e l’Italia intera: stavolta non abbiamo vinto niente, stavolta nessun carosello e nessun tuffo nelle fontane, solo silenzio e nostalgia. Ma non è detto che manchi nulla neppure stavolta: senza trofei, nel ricordo di Gianluca, questo Paese sembra comunque un luogo migliore.