Ha giocato la buona partita. E non l’ha persa, anche se ha dovuto smettere di correre. Gianluca Vialli era andato in campo perché non aveva scelta. Il cancro non te ne lascia. Ma ha deciso lui quale partita disputare. «Non gioco contro la malattia. La malattia è più forte. Posso solo sperare che si stanchi e mi lasci vivere». Per qualcuno è andata così, nel suo caso il cancro non si è stancato. Non ci sono premi e non ci sono pagelle, alla fine. Non è il più bravo, il più forte o il più determinato a vincere. Ma Vialli non ha perso, perché si è posto un obiettivo e l’ha raggiunto. Quella era la sua partita, il resto è vita, morte e quel poco che rimane intorno. È stato male per cinque anni. E per un anno ha nutrito il dubbio di poter affrontare l’avversario da avversario. Che ci fosse qualcosa di vero in ciò che si racconta, che fosse una lotta ad armi pari. Si è illuso di poter difendere gli altri dal suo dolore, diceva a The Guardian. «Non ho rivelato nulla a nessuno, neppure ai miei genitori. È difficile mettere di fronte a una cosa simile le persone a cui vuoi bene». E al Corriere della Sera: «Mi mettevo un maglione sotto la camicia per sembrare il Vialli di sempre». Ma poi se n’è pentito, perché tenersi dentro quell’angoscia che si gonfia diventa impossibile e perché ha compreso di poter giocare una partita diversa da quella che il cancro al pancreas pretendeva di imporgli. Una partita che si poteva vincere, perlomeno non perdere. Meglio finirla con le metafore calcistiche. A lui non piacevano. Ne usava altre. «Il cancro è un compagno di viaggio indesiderato. È salito sul treno con me e io devo andare avanti, viaggiare a testa bassa, senza mollare mai». Lo spiegava in “Sogno azzurro”, il documentario della Rai sull’Europeo vinto dall’Italia nel 2021. Questa è la partita che ha accettato di giocare, o meglio il viaggio che si è preso la briga di intraprendere. Il viaggio di ciò che rimaneva della sua vita, dopo aver preso atto che non sarebbe morto di vecchiaia. «Almeno non credo. Ma ci sono ancora tante cose che voglio fare». Da quel momento di conquista di coscienza, un anno dopo aver saputo, ha fatto della sua malattia un manifesto, un’enciclica, una lettera apostolica. Senza alcuna presunzione dottrinale, bensì con la speranza di essere utile. «Vorrei che qualcuno mi guardasse negli occhi e dicesse: è anche per merito tuo se non ho mollato». Fedez per esempio si è comportato proprio così. Non ha potuto guardarlo negli occhi, però oggi ci sono i social che te ne danno una buona simulazione. Sì, Vialli lo ha fatto per gli altri. E soprattutto per sé stesso. Non c’è contraddizione e nessun eventuale giudice supremo gliene chiederà conto. Gli chiederà conto forse del non aver mai perdonato Zeman per le accuse di doping o i tifosi che lo maledicevano mentre passava dallo scudetto con la Sampdoria alla Champions vinta con la Juventus. A un certo punto Vialli ha sentito che la differenza tra lui e il mondo era diventata così sottile da potersi trascurare per approssimazione. «La vita è un venti per cento quello che ti succede e un ottanta per cento come reagisci. Non l’ho inventato io». In effetti non si sa bene chi l’abbia inventato per primo, probabilmente un allenatore di football americano con l’hobby degli aforismi. Comunque ha funzionato. Per Vialli e per chi lo è stato a sentire. Sarà perché lui era Vialli e con o senza maglione sotto la camicia si portava dietro il carisma del calciatore illuminato. Sarà perché nella sua nuova incarnazione, fragile, smagrita, lucida quanto sa essere la pelle tesa di un uomo indebolito dal fato, vibrava una qualche implacabile luce di sincerità. «Ho paura di morire. Non so che cosa troverò dall’altra parte una volta spenta la luce. Ma in un certo senso sono anche eccitato di poterlo scoprire», rifletteva nella primavera scorsa rispondendo ad Alessandro Cattelan in “Una semplice domanda”. E ancora: «La malattia può essere un’opportunità. Ti insegna molto su come sei davvero. Non è soltanto sofferenza. So che non avrò molto tempo per essere di esempio alle mie figlie e per questo provo l’ansia di fare tutto, provo eccitazione per ogni progetto. Certo, non arrivo a sostenere di essere grato al cancro». Naturalmente no. Non puoi convincerti che sia un portafortuna, come il mendicante arabo di De Gregori. Per alcuni versi quel tristo compagno di viaggio, oltre a condurre Vialli dove non aveva mai nascosto di volerlo condurre, lo ha tradito. Non gli ha concesso tutto il tempo sperato, il tempo che aveva chiesto nel 2018 parlando a “Che tempo che fa”: «Vorrei non morire prima dei miei genitori e portare le mie figlie all’altare quando si sposeranno». Non ha avuto tutto. «Ma credo che questa esperienza mi abbia reso una persona migliore». E pensiamo pure che sia retorica consolatoria. Non sta nella lezione etica l’eredità di Vialli. Sta nell’audacia di averla pronunciata. Nell’aver indicato il compagno di viaggio all’intero vagone gridando: guardate come lo tengo a bada e nel caso capitasse anche a voi potete fare come me. Se volete. Io non possiedo la verità, ho solo il coraggio di un’opinione. Così ha rilasciato interviste, registrato monologhi, scritto libri. Uno s’intitola “Goals”, che vuol dire l’ovvio ma anche “obiettivi”. Appuntava frasi meditate su post-it gialli, quindi andava a cercare storie che fossero in tema. E le buttava giù. Ha cominciato a collaborare con organizzazioni di volontariato. Ah, e pronunciava discorsi. Quello era il suo mestiere, oltre che una vocazione nuova. Nel 2021, prima della finale dell’Europeo a Wembley, ha parlato lui ai giocatori della Nazionale. Ha preso in mano un volume e ha cominciato a citare Franklin Delano Roosevelt, il presidente che tirò gli Stati Uniti fuori della Grande Depressione e li scagliò contro il nazismo. «L’onore spetta all’uomo che lotta con coraggio, che sbaglia ripetutamente, sapendo che non c’è impresa degna che sia priva di errori e mancanze. L’uomo che dedica tutto sé stesso al raggiungimento di un obiettivo, che sa entusiasmarsi e impegnarsi fino in fondo e che si spende per una causa giusta. L’uomo che, quando le cose vanno bene, conosce finalmente il trionfo delle grandi conquiste e che, quando le cose vanno male, cade sapendo di aver osato». Qualcuno si commosse. Qualcuno si mise a pensare. Tutti vinsero. Era solo una partita. Ora Vialli sa che cosa c’è una volta spenta la luce. Se gli hanno chiesto qualcosa, gli hanno chiesto se ha vissuto. E lui ha saputo rispondere.