Se il calcio compra le parole

Se il calcio compra le parole© BARTOLETTI
Alessandro Barbano
5 min

Salve, sono il condirettore del Corriere dello Sport-Stadio, vorrei chiederle l’autorizzazione a intervistare Caio Sempronio. Ci piacerebbe raccontare il suo impegno per il calcio giovanile che ha portato i suoi talenti del vivaio a vestire la maglia della Nazionale

  - Mi dispiace, ma abbiamo detto di no la scorsa settimana ad altre richieste, Caio Sempronio parlerà nei prossimi giorni sul canale ufficiale del club. 
- Mi perdoni, ma nei giorni scorsi la Nazionale non aveva ancora giocato. Il fatto di cui parliamo è accaduto l’altra sera, è più che normale che l’allenatore delle giovanili abbia il diritto di parlarne oggi, le pare? 
- Mi dispiace, ma questa è la nostra policy. 
- Si rende conto che gestite la comunicazione di un allenatore come fosse il capo del Pentagono? Non vi sembra di prendervi troppo sul serio? È più facile parlare con il ministro dell’Interno che con voi. 
- Considero la sua battuta inopportuna, ma questa è la nostra policy. 

Già, la policy. Al netto di una personale idiosincrasia per l’uso degli inglesismi nel lessico professionale, viene tanto da tradurla con «polizia». Il calcio italiano comunica come un regime di polizia. Controlla le più innocenti esternazioni di qualunque tesserato come fossero un pericolo per la sicurezza nazionale e preconfeziona, con veline e pseudo-interviste, il vuoto pneumatico di una comunicazione ufficiale che non manca solo di verità, ma soprattutto di realtà e di senso. 

Riportiamo il siparietto occorso ieri non per mettere all’indice qualcuno, anche perché non si tratta di un’eccezione, la gran parte delle società si comporta nel modo qui rappresentato. Ma ci preme segnalare che questo filtro deformante isola il calcio, lo rende intrasparente e fittizio come uno spettacolo mal riuscito, instaura tra i club e la società un rapporto autoritativo e contribuisce a cristallizzare l’intero movimento sportivo in un tempo falsamente moderno, che conserva tutti intatti i suoi vizi primitivi, dal pregiudizio alla violenza, dal sotterfugio sleale all’inganno sistematico. 

Ciò che stupisce è che la gran parte delle società ormai dispone di professionisti della comunicazione che la comunicazione fanno di tutto per impedirla, con un realismo che supera quello del re. Questa involuzione non accade per caso. E smaschera l’idea, anch’essa primitiva, che l’industria calcistica, in quanto produttrice di spettacolo, sia proprietaria del messaggio, che lo spettacolo invia, nel suo intero percorso temporale, dall’emissione alla percezione del pubblico. È la stessa ideologia privatistica, e parzialmente totalitaria, che guida l’occhio dell’unica telecamera abilitata sul terreno di gioco lontano dai gesti razzisti o dalla violenza che si consuma sugli spalti. Come se tutto non accadesse in uno spazio pubblico e attorno alla più pubblica delle passioni del pianeta, e come se l’intero racconto di ciò che si muove attorno al calcio potesse essere riscritto e addolcito da chi se ne sente il proprietario esclusivo. 

Lasciateci dire che si tratta di un’illusione suicida. I sistemi umani evolvono solo nella verità e grazie all’ironia, le due virtù mancanti del sistema. L’immaturità del calcio italiano è tutt’uno con la sua costipazione in una bolla sterile, di cui quella imposta dall’allarme pandemico è stata solo una trasposizione fisica. In questo ambiente ovattato, abituato a darsi ragione da sé, i calciatori rischiano di restare eterni bambini, istruiti in scuole che non formano, educati all’ovvietà del pensiero e guidati a dire o a non dire in conferenze stampa dove vige il controllo preventivo sulle domande o la censura delle domande sgradite. Come se la leadership, che la sfida del campo li chiama ad assumere, non fosse anche un primato della personalità fondato sull’indipendenza di giudizio e sulla maturità culturale.  

Allo stesso modo, in questo brodo di complicità corporative gli altri attori protagonisti, dai tecnici ai dirigenti, rinunciano presto a segnare una distinzione che può cambiare il racconto del calcio e si convincono a ridurre le loro ambizioni a interessi strettamente economici. Non c’è un solo allenatore, anche dei più blasonati, che abbia preteso di tenere per sé i diritti di immagine, tra cui rientra la facoltà di comunicare in autonomia, ancorché nel rispetto degli interessi del club. Accade così che, in caso di licenziamento anticipato, costoro si condannino al silenzio per tutta la durata residua del contratto, essendo vincolati a tacere anche se interrogati sull’evoluzione dei modelli tattici in Corea del Nord. Pecunia non olet, la parola invece sì. La parola non vale niente, come se un allenatore non fosse anche un teorico e, a suo modo, uno scienziato nella sua disciplina e non dovesse sentire su di sé la responsabilità di trasmettere una qualche pedagogia. 

La crisi del calcio è figlia anche di questa dismissione di doveri in nome di interessi puramente speculativi, a cui le macchine della comunicazione dei club forniscono una grottesca paratia, dietro cui nascondersi. Sia benedetto chiunque avrà il coraggio e la forza di riaffermare la dignità e l’autonomia del libero confronto delle idee nello sport dove anche la parola è stata comprata e ridotta al mutismo.


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