Arbitri, perché si continua a sbagliare© LAPRESSE

Arbitri, perché si continua a sbagliare

Alessandro Barbano
6 min

Il caso si può chiudere con una battuta. E suggerire al designatore Gianluca Rocchi di togliere a Davide Massa, non solo il patentino di arbitro, ma la patente dell’auto. Perché uno che al monitor non vede il rigore di Ranocchia su Belotti, al volante è un pericolo pubblico. Ma Torino-Inter può anche indurre una considerazione più seria. Che va ben oltre la prevedibile lunga squalifica per il responsabile della sala Var. In tal caso il mancato alert all’arbitro Marco Guida è da considerarsi uno scandalo. Perché, di fronte all’enormità dell’errore, la ragione fa fatica ad accettare che Massa non abbia visto il contatto in area, e cioè il piede del centrale nerazzurro che sposta quello dell’attaccante granata, facendogli perdere l’appoggio.

Scartiamo subito l’ipotesi che l’arbitro abbia dolosamente omesso di richiamare il collega in campo, perché interessato a condizionare il risultato della gara. Ci impediscono di prenderla in considerazione il dovere di presumere la buona fede altrui e la convinzione che il settore arbitrale sia sostanzialmente immune da magheggi illeciti. Ma non meno inverosimile appare la versione ufficiale: che il responsabile del Var abbia scambiato il contatto tra i due piedi con il contatto tra il piede di Ranocchia e il pallone. A voler guardare cento volte le immagini, nessuno potrebbe interpretarle in quel modo.

La responsabilità colposa di Massa sarebbe tanto grave da giustificare un giudizio di assoluta inadeguatezza. La censura severa che lo attende servirà a circoscrivere lo scandalo, non a comprenderne le sue cause profonde e a impedire che si ripeta. Proponiamo un modo diverso di considerare l’accaduto. Ce lo suggerisce il senso etimologico del termine scandalo. Che in greco vuol dire ostacolo, inciampo.

Il Var è la pietra d’inciampo del calcio, perché è la prova della sua incapacità a governare la tecnica. L’occhio elettronico dovrebbe salvare l’arbitro dall’errore, e invece ne diventa l’alibi che lo giustifica. In questa ipotesi Massa in sala Var vede il fallo che Guida non ha visto, o che Guida ha visto e ha valutato come un contatto regolare, e si astiene dal segnalarlo perché la correzione dell’arbitro significa assumere su di sé la responsabilità di una decisione che avrebbe un peso determinante sull’esito della gara. Rinuncia d’istinto a intestarsi la condanna dell’Inter.

Nella stessa ipotesi Guida non vede il fallo, il Var non lo allerta, e lui si autoassolve. Pensa: se Massa non mi chiama, vuol dire che non ho sbagliato. Anzi, con più esattezza: se Massa non mi chiama, vuol dire che ciò che io non ho visto non è facilmente rilevabile neanche da lui. E tira dritto. Eppure l’arbitro potrebbe fare altrimenti. È il dominus del regolamento e della sua corretta applicazione. Potrebbe fermare il gioco e andare a controllare al monitor. Ma avete mai visto un direttore di gara farlo, anche una sola volta? Perché non accade? Perché la tecnologia non è impiegata per estirpare l’errore, ma per circoscrivere o scaricare le responsabilità.

Per spiegare l’atteggiamento degli arbitri può aiutarci la teoria dei giochi, e cioè la scienza che studia attraverso modelli matematici i comportamenti umani. Uno dei suoi giochi più famosi è il cosiddetto dilemma del prigioniero. Si racconta più o meno così: due criminali vengono accusati di aver commesso un reato, la polizia li arresta entrambi e li chiude in celle diverse, impedendo loro di comunicare. Ad ognuno vengono date due possibilità: confessare e accusare il compagno, o tacere. La teoria dei giochi dimostra che, nonostante a entrambi converrebbe tacere, coprendosi a vicenda, in una percentuale altissima di casi finiranno per accusarsi l’un l’altro. Perché la paura prevale sulla razionalità.

Massa e Guida sono nello stesso paradosso competitivo dei due prigionieri: la ragione li indurrebbe a cooperare tra loro, la paura li porta ad assumere decisioni che rispondono all’istinto di scaricare ciascuno sul collega la propria responsabilità. Per sottrarli a questo perverso gioco a perdere c’è un solo modo: il challenge, cioè il diritto delle due squadre di pretendere in un numero definito di casi il controllo del Var da parte dell’arbitro in campo, l’unico che ha la potestà di decidere nel modo migliore sui casi dubbi, associando la percezione dei sensi al contributo delle immagini.

Perché non si cambia? Perché si teme, sbagliando, che garantire la partecipazione delle squadre al governo della tecnologia significhi perdere potere. Non è vero. E soprattutto non è utile all’esattezza delle decisioni, e all’immagine del calcio. Che sarà pure un gioco, ma merita di essere un gioco giusto.


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