«Io, Giocondo il cuoco e Walter il magazzinie re eravamo l’interruttore che per due o tre ore riusciva a smorzare la tensione di Simone. Prima della partita lui non dormiva mai, non ce la faceva proprio. La nostra tecnica, sempre la stessa, la partita a carte. Ridendo e scherzando, faceva- mo sì che non pensasse al giorno dopo, agli avversari, ai cali di rendimento dei suoi, alla formazio-ne». Dodici dei ventidue anni di Lazio Simone Inzaghi li ha vissuti insieme a Angelo Peruzzi, sette da giocatore e cinque da allenatore. Via Simone, via anche Angelo - custode di momenti, fasi, se- greti, intrusioni, suggestioni - che da qualche mese non è più il collante tra la squadra e la società, «ma non farmi toccare l’argomento Lazio, non combinarmi dei casini», mi ripete almeno tre volte. Cinquantun anni il 16 febbraio, venti da portiere di Roma, Verona, Inter e soprattutto Juve, otto stagioni, Lazio, sette, e Nazionale, oggi Peruzzi è il diligente accompagnatore di suo figlio Mattia, diciannovenne, anch’egli portiere ma nei Dilettanti del Tiferno, a Città di Castello («in tre anni alla Lazio ha giocato una sola partita, il derby, dove ha fatto benissimo, un caso più unico che raro di raccomandazione alla rovescia», sorride). «Mi chiedi com’era allora e com’è adesso Simone? È un’altra persona, per me l’hanno cambiato».
In che senso?
«È l’esatto contrario del giocatore. Se mi avessero chiesto di indicare uno che non avrebbe mai potuto fare l’allenatore, avrei risposto di getto Simone. Era un ragazzino, viveva alla giornata, rideva, scherzava, era tutto uno scherzo. Si è fatto uomo, ora è maturo, responsabile, cocciuto anche. Un tecnico di prim’ordine, studia giorno dopo giorno, cura i dettagli, ed è un decisionista. Un giorno gli dissi: “Simo, se vuoi diventare un grande allenatore devi fare attenzione anche alle cazzate e avere una risposta definitiva per qualsiasi domanda. Sì o no, incerto mai, non devi prendere tempo, vediamo più avanti o cose del genere”. Io l’allenatore non l’ho fatto perché la notte voglio dormire, troppe responsabilità, un carico insopportabile di tensioni, pressioni da tutte le parti. Per un po’ ho fatto il vice di Ferrara a Genova e nell’Under 21, l’osservatore e poi il secondo di Lippi in Nazionale, ma non era cosa. Il ruolo dell’osservatore lo trovavo innaturale»
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Torniamo a Simone.
«Tosto e consapevole. Mai avrei pensato di vederlo attaccare al muro qualcuno nello spogliatoio, e invece è capitato. Sa essere dolce con i giocatori, ma anche autorevole e autoritario. La trasformazione più sconcertante avviene in partita. Lui vive per il risultato, per la vittoria. Credimi, è talmente teso e su di giri che sarebbe perfi no capace di fare a botte. Hai presente Salvatore Bagni? Fuori dal campo un uomo di cuore, sempre pronto a farsi in quattro per darti una mano, ma in partita avevi soltanto voglia di attaccarlo al muro. Un genere alla Bagni».
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Sei stato un solo anno all’Inter e perdippiù poco fortunato.
«Se non si fossero rotti Vieri e Ronaldo quel campionato l’avremmo vinto. Eravamo partiti benissimo, se non sbaglio cinque vittorie nelle prime cinque partite. Vieri restò fuori due mesi e mezzo. Avevamo Zamorano e Recoba, niente male, ma non era la stessa cosa».
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