Trigoria, Formello, ore 15: Fonseca che torna Zorro, con tanto di mascherina nera sul viso, Dzeko che fa slalom tra le piramidi di gomma, Milinkovic che bacia il prato mentre si flette sugli avambracci e Marusic che volteggia sul tappetino elastico. Distanze sconfinate li separano nell’immensa pianura verde, in ossequio al divieto di avvicinarsi a meno di 10 metri imposto dal protocollo.
Villa Borghese, stessa ora. Famigliole a spasso con bambini e cani, tricicli che si tagliano la strada e contatti che tornano umani, tra piccoli azzardi e intense esitazioni. Dalla fermata “Spagna” si rivede una fila ordinata di mascherine che riaccende la vita suburbana della Capitale. C’è più rischio in un metrò che in un campo di calcio, ha detto l’infettivologo Francesco Le Foche a Giancarlo Dotto, che lo intervistava.
Ancora alla stessa ora, mentre l’Ansa annuncia che nel Lazio si contano nella giornata di ieri 39 positivi e 119 guariti su 6 milioni di abitanti, inizia l’udienza della Figc di fronte al comitato tecnico scientifico. Gli schermi internettiani di una call conference non smorzano la sacralità dell’incontro tra gli uomini del calcio italiano e il sinedrio di sacerdoti-scienziati, che può con un fischio far ripartire il campionato e con tre mandare in crack un’intera economia sportiva. L’ipocrisia regola le forme del dibattito: la politica decide, noi consigliamo. E fin qui la politica ha chinato il capo. La Fase due dovrebbe essere la stagione del rischio condiviso tra cittadini e autorità, in nome di una responsabilizzazione collettiva. Per ora è stata la prova di forza di un potere che l’emergenza ha insediato nel cuore della democrazia. E che impone agli amici e agli amanti di negarsi e ai calciatori di correre a distanza con divieto di torello e perfino di palleggio tra un’area di rigore e l’altra.
Il presidente della Figc fa professione di umiltà davanti al sapere virologico: il calcio, dice, s’inchina alla volontà della scienza e alla salute degli atleti. Però, aggiunge, noi potremmo fare tamponi a ripetizione ai calciatori e tornare a giocare. Come in Germania, dove, con dieci positivi testati, si riparte tra una settimana. E come in Spagna, dove i positivi sono una trentina, ma non bastano ad affondare lo spettacolo. Il partito del “si fermi tutto” si sarebbe accontentato di un ragazzino contagiato nella primavera del Toro, se avesse potuto ancora agitare lo spauracchio di nuovi focolai.
Ma il racconto della sfida al virus inizia finalmente a essere un altro: i sei viola, i quattro blucerchiati e i tre milanisti positivi fanno tredici asintomatici, che fino a ieri sarebbero andati a contagiare ignari avventori nei supermercati delle città e che, grazie al tampone praticato dalle società, sono stati messi in quarantena. Ah, se invece di suggerire divieti e sanzioni e diffondere per due mesi dati inattendibili su morti e contagiati, gli scienziati del sinedrio avessero chiesto subito al governo di fare tamponi à gogo, come hanno fatto i Paesi e le Regioni italiane che contano il minor numero di vittime!
Comunque la testarda battaglia del calcio sta facendo lentamente breccia nella ragnatela di pregiudizi del comitato. L’incontro virtuale è stato positivo, chissà se la fiducia conquistata basterà a saltare la quarantena obbligatoria di quattordici giorni, che si para come un ostacolo davanti alla ripartenza. Ma se mai il calcio riaccenderà la passione in un Paese che, fermandosi, si è ammalato, lo si deve a Gabriele Gravina. Ha sfidato in solitudine le battute sdegnate dei moralisti, che dicevano: come si fa a parlare di pallone davanti a tante morti? Ha schivato le trappole dei disfattisti, che lo accusavano di non avere un piano. Sta dimostrando che era l’unico ad avercelo, in mezzo a una classe dirigente di sbandati. Perché, nel buio della guerra, ha tenuto a mente che la guerra prima o poi finisce. La guerra non è finita, ma il suo calcio indica una via.