Sulla giostra dei cosiddetti commenti “a schiovere” c’è sempre un oratore di turno. Se l’infettivologo Giovanni Rezza scende con qualche scusa, prende il suo posto la sottosegretaria Sandra Zampa, con delega allo Salute. Intervistata da Rai News 24, discetta di tutto con buoni argomenti. Di tamponi, di fase due, di rapporti tra governo e Regioni. Poi, quando le chiedono qualcosa che riguarda il calcio, si dimostra infastidita. Quasi a dire: come mai mi fa questa domanda? Perché, che il calcio riparta le pare molto difficile, e soprattutto «il dibattito sulla questione non» le «sembra prioritario».
Il suo argomentare malcela un retropensiero ricorrente, una sorta di sindrome di Stoccolma dell’emergenza, che ci fa assumere l’epidemia come un paradigma esistenziale. In nome del quale il virus, prima ancora di attentare alla vita, ha cancellato i nostri interessi, le nostre passioni, e perfino le nostre emozioni. Di fronte alla minaccia mossa all’umanità, niente ha più legittimazione di essere considerato, se non la minaccia stessa. Per alcuni questa sindrome ha una tinta ideologica o, addirittura, mistica. Che considera la pandemia come la giusta punizione del capitalismo, a cui non può che seguire la stagione della mortificazione e della colpa.
Qualcosa di simile era accaduto nel 2011, nella stagione del governo Monti. Quando alla giusta preoccupazione di ridurre il debito pubblico si aggiunse una retorica della sobrietà e dell’essenziale, che mise all’indice l’universo del bello e del lusso, e con esso la sua ricca industria, gettandola sul lastrico. Allora come oggi, il fatturato del Paese sprofondò, per la gioia di questi inguaribili millenaristi, che assumevano l’emergenza, all’epoca finanziaria, come una bussola morale.
Il Fondo monetario internazionale ci ha detto ieri che il Pil nel 2020 scenderà in Italia di oltre 9 punti, due in più della Francia e della Germania, e tre in più della media dei Paesi sviluppati. Tutti sono stati travolti dalla pandemia. Ma il prezzo più alto di vite umane e di costi economici e sociali lo pagheremo noi. Che non consideriamo prioritario far ripartire, in sicurezza, un sistema sportivo da cui dipende una fetta non irrilevante della nostra economia. «Anche se si aspetta un mese non c’è nulla di catastrofico», dice Sandra Zampa, non prima di aver confessato, con beata innocenza: «Io non sono un’appassionata, scusatemi».
Come a dire: scusatemi se rispondo con tale superficialità. Scusatemi se ignoro che un altro mese di attesa significa la cancellazione dei campionati. Scusatemi se trascuro le dimensioni del gettito pubblico che il calcio professionistico dà al Paese. Scusatemi se non comprendo il significato simbolico che la sua ripresa avrebbe per migliaia di appassionati, reclusi in casa da quasi due mesi. La scusiamo, onorevole: ma perché, confessando la sua incompetenza, non ha rinunciato a rispondere e a giudicare? Perché, vede: se almeno la contrarietà a far ripartire il campionato venisse da esperti e politici che ne parlassero nel merito con serietà e pertinenza, si potrebbe anche discuterne. Invece no. Non solo si deve accettare la banalità di certi giudizi, ma ci si deve sorbire anche la morale di chi considera le domande sullo sport inopportune.
Purtroppo il virus si sta rivelando, giorno dopo giorno, una cartina al tornasole del Paese. Testando allo stesso modo l’inefficienza della risposta sanitaria e la fragilità della nostra classe dirigente. Che delle fantasie del calcio pure potrebbe giovarsi. Se non altro per oscurare le sue gaffe.