Francesco Le Foche, medico immunologo, responsabile del day hospital di immuno-infettivologia del policlinico Umberto I di Roma. Più che mai in trincea di questi tempi, con i tre reparti attivi per il Covid 19. Una cinquantina di letti a oggi, più le aree di accettazione, decompressione e i reparti di terapia intensiva e rianimazione, fiore all’occhiello dell’ospedale, insieme alla storica e prestigiosa scuola di malattie infettive e tropicali voluta da re Umberto I agli inizi del novecento. Oggi l’assillo di Le Foche, quasi un’ossessione, è uno: quella che lui chiama l’«anomalia Bergamo». L’incomprensibile e al momento inspiegabile anomalia planetaria rispetto alla sindrome da Covid 19. Partiamo da qui. La diffusione enorme del virus a Bergamo e provincia e il tasso unico di letalità. Niente certezze. Ipotesi?
«Probabilmente in quel distretto hanno agito più fattori trigger, i catalizzatori che attivano in modo repentino la diffusione del virus, facendolo esplodere in tutta la sua gravità».
Nello specifico?
«Un paio su tutti. Quella bergamasca è un’area molto attiva nel mondo degli scambi economici e sociali. Un terreno ideale per il virus. Secondo fattore, parliamo antropologicamente di gente da sempre molto operosa, spartana, con una grande cultura del lavoro e una tendenza a sottovalutare e dunque trascurare malesseri che sembrano di stagione.L’albero degli zoccoli di Olmi è la rappresentazione perfetta di questa gente. Aggiungiamo i comportamenti che, specie nei primi giorni, non hanno certo aiutato lo stop del virus».
Un esempio? Da Valencia arrivano espliciti riferimenti alla partita di San Siro del 19 febbraio, l’Atalanta-Valencia andata di Champions.
«Uno di questi episodi, tra i più eclatanti, potrebbe essere stato proprio quello. L’apice in termini di euforia collettiva di una stagione calcistica unica nella storia del club».
Siamo al paradosso assoluto: il contagio positivo della festa e dell’entusiasmo potrebbe aver favorito il contagio negativo del virus e dunque della depressione e del lutto?
«Ci sta. È passato un mese da quella partita. I tempi sono pertinenti. L’aggregazione di migliaia di persone, due centimetri l’una dall’altra, ancor più associate nelle comprensibili manifestazioni di euforia, urla, abbracci, possono aver favorito la replicazione virale».
Che intende per “favorito”?
«Intendo un’espulsione di quantità di particelle virali molto alta e a grande velocità dalle prime vie aeree, bocca e naso. Stiamo parlando dell’enfasi collettiva di una partita storica, con molti gol. L’afflato di una tifoseria appassionata come poche. Devo immaginare che a quella partita siano andati quasi tutti, inclusi probabilmente asintomatici e febbricitanti».
Sta dicendo che potrebbe essere una delle concause dell’anomalia Bergamo?
«Potrebbe essere».
Una follia giocarla a porte aperte quella partita con il senno di poi?
«Ha detto bene, col senno di poi. All’epoca troppe cose non erano ancora chiare, a cominciare dall’enorme diffusibilità di questo virus. Oggi sarebbe impensabile. Infatti, hanno bloccato tutto».
Riprendere a giugno è realistico?
«Dubito molto fortemente. Un contesto così socialmente aggregante ed empatico come il calcio è l’antitesi dei comportamenti che si devono avere nell’emergenza sociale di un virus. Una minaccia per definizione».
Se le aggregazioni empatiche sono un fattore fondamentale di contagio, siamo di fronte a un’illusione collettiva delle istituzioni del calcio, quando immaginano di ricominciare entro giugno?
«La Cina docet. Ci vogliono certezze. Che vuol dire una stabilizzazione vera prima di ricominciare. Molto probabile che il virus circoli in modo ridotto da qui all’autunno. Dopo di che potrebbe esserci una ripresa dell’attività virale. Stiamo, ovviamente, ragionando per ipotesi».
Non c’è da essere ottimisti…
«In quanto alla diffusibilità, no. Questo virus continuerà a diffondersi. Noi, grazie anche all’aver studiato quanto accade al nord, l’abbiamo ridotti ai minimi termini, ma non basta per tornare alla realtà di prima. Da qui ai prossimi mesi dobbiamo riorganizzarci in modo diverso».
Molto improbabile dunque il via libera alle aggregazioni prima della fine dell’anno?
«Di quelle sportive in particolare. Anche perché, se da noi il virus andrà a ridursi, la tendenza è a crescere in Francia, Germania, Spagna e Inghilterra. Tutte nazioni che hanno un ruolo centrale nelle competizioni internazionali».
Il rischio è il collasso del sistema. Riprendere a porte chiuse per evitarlo?
«Potrebbe essere una soluzione».
Da studioso, una sua riflessione su questa pandemia?
«I comportamenti umani hanno modificato l’habitat e dunque le chance di adattamento dei virus. Il virus, se non ha una cellula dove replicarsi, muore. In una situazione di habitat alterato le particelle virali cercano l’ambiente più favorevole. Questo favorisce il salto di specie. È la teoria di Darwin. Si adattano nella trasformazione. Replicarsi è l’unico scopo dei virus».
Scenario più che allarmante.
«Noi abbiamo un’arma in più, importantissima. L’intelligenza. È l’arma che ci ha portato a vincere le battaglie più complicate nella storia dell’umanità. Dobbiamo fare in modo che il contenitore di virus si allontani, distanziando le possibilità di contagio. Dobbiamo evitare che il virus salti da autobus all’altro».
L’intelligenza umana sta andando nella direzione giusta?
«Assolutamente sì. Tutto questo percorso virtuoso potrebbe però essere inficiato da comportamenti umani non virtuosi»
In Paesi come l’Inghilterra sembrano voler privilegiare altre strade.
«Stanno cambiando strategia. In prima istanza avrebbero voluto vincere la battaglia della nazione in termini economici, anche rischiando vite umane. Nel nostro caso il rispetto della vita è centrale. Sfavorisce la forza della nazione in termini di economia ma la rafforza in termini di solidarietà sociale. Sono due strategie opposte».
Quale la più efficace?
«La direzione che abbiamo scelto noi, di salvare le vite umane , è quella che appartiene alla nostra storia e alla nostra sensibilità. Non possiamo inventarci diversi da quello che siamo. Questo sì, sarebbe il disastro peggiore».
Cosa dobbiamo immaginarci da qui in poi?
«Analizzando a fondo questo virus ritengo che si possa combattere in due modi. Quello di prevenzione epidemiologica, distanziando le persone. L’altro, è una terapia congrua».
Che sarebbe?
«Bisogna capire bene la patogenesi della Covid 19, vale a dire il danno all’organismo. Il virus, quando degenera, scatena una tempesta citochimica, che si traduce in un’infiammazione acuta. Non bisogna arrivare alla sindrome dell’attivazione macrofagica, cellule del sangue che mangiano altre cellule. Ovvero, la parte terminale del marasma citochimico».
Sarebbe questo il livello di guardia?
«Sì, anche se la complicanza più grave è quella del danno alveolare nel polmone profondo. Quando il sistema immunitario non riesce più, occorre spegnere comunque l’infiammazione con la terapia. L’alternativa è l’intubazione».
A che punto siamo con i farmaci?
«È un virus nuovo, va studiato bene. Oggi abbiamo marcatori sierologici che indicano il paziente a rischio. Su questi, in particolare, concentriamo oggi l’attenzione. La patogenesi a spanne del virus l’abbiamo rappresentata, ora stiamo utilizzando i farmaci che agiscono sulle citochine».
Quanto efficaci?
«È una terapia ancora improbabile, i farmaci vanno affinati e lo faremo in brevissimo tempo. Non dimentichiamo che con la “spagnola”, un virus che uccise più della guerra, ci misero un anno per capirci qualcosa. Con la Sars ci vollero sei mesi. I cinesi hanno isolato e studiato il Coronavirus in tre giorni».
L’unicità di questo virus?
«Che si replica molto rapidamente sulle prime vie aeree, anche durante la fase asintomatica. È la sua arma. Potremmo dire un virus molto democratico che colpisce chiunque, salvo poi seguire percorsi diversi. Una livella, per dirla alla Totò».
La preoccupazione?
«Quella più grande è che si diffonda in Africa, dove i sistemi sanitari e di rianimazione sono meno efficaci».
Quanto è alto il rischio che nel resto d’Italia si ripeta quanto avvenuto al nord?
«Con i comportamenti che abbiamo adesso lo ritengo molto improbabile. A oggi, i numeri ci confortano».
Un messaggio finale ragionevolmente positivo?
«Uno su tutti: è molto improbabile che il virus possa vincere la battaglia con l’intelligenza umana. Stiamo dando, a partire dalla Cina, una prova di grande efficienza».
A partire dal Covid-19, cosa dobbiamo aspettarci in futuro?
«Potrebbero presentarsi vari virus all’orizzonte orientati al salto di specie. I virus, in questo salto, possono potenziarsi o depotenziarsi. Alcuni di loro potrebbero essere molto contagiosi, com’è oggi il Coronavirus, ma anche molto letali e lì sarebbe lo scenario peggiore».
Come possiamo prevenirlo?
«Dobbiamo evitare il salto di specie in tutti i modi. Ritornando a un equilibrio della natura, alla concezione di una vita biologica utile a tutti, cancellando la necessità per entità così piccole di aggredire l’essere umano, di farne l’ospite ideale».
Come si arriva a questo?
«Prima cosa, istituire un organo di controllo permanente. Una task force. Dove medici e veterinari lavorino insieme. Non a caso Ilaria Capua, donna colta e molto preparata, è una virologa veterinaria impegnata anche su questo fronte».
Come cambierà, se cambierà, il genere umano a partire da questo choc collettivo?
«Il comportamento delle persone cambierà in meglio. Ma, soprattutto, devono cambiare le scelte di fondo della classe politica, che negli ultimi anni ha relegato al ruolo di cenerentola anche la salute pubblica. Senza giustizia, istruzione e sanità, la decadenza di una nazione è inevitabile».
La lezione sarà recepita?
«Mi auguro di sì. Sono certo che il politico di domani non può comportarsi come il politico di oggi. La gente non glielo permetterà».
Possiamo dire che questo flagello inatteso sia stato, in qualche modo, un allarme rosso per l’umanità intera, la risposta del suo sistema immunitario?
«Ha detto bene. Dobbiamo viverlo così. Come un incidente fecondo»