«Ho giocato nonostante il sudore e il dolore non per vincere una sfida, ma perché tu mi avevi chiamato. Ho fatto tutto per te, perché è quello che si deve quando qualcuno ti fa sentire vivo come tu mi hai fatto sentire». Kobe Bryant dava del tu al dolore che per lui era persona (quanti brutti infortuni e quante splendide ripartenze). Kobe era una leggenda dello sport, lo spettacolo assoluto, una piacevolissima condanna: ogni volta che i Lakers giocavano i playoff , avevo - come tanti - un appuntamento irrinunciabile col televisore e facevo l’alba solo per lui, per Mamba. Kobe era figlio di Joe Bryant, era cresciuto in Italia, nella mia Emilia, noi appassionati di basket lo sentivamo un po’ nostro. È morto cadendo dal cielo, come solo le stelle, dentro un giocattolo difettoso. Il dolore adesso dà del tu a chi Kobe lo ha amato. Il calcio, il campionato arriva dopo.
Anche se è successo di tutto. Napoli ha castigato Sarri dopo averlo fischiato: decisivo Insigne, alla sua migliore prestazione stagionale (l’abbiamo visto finalmente saltare l’uomo, rischiare la giocata, fare l’Insigne), deludente la Juve, che ha interrotto la striscia positiva di gennaio cedendo alla confusione, al disordine di un gioco assai distante dal dettato del tecnico. A Gattuso è invece riuscita la partita perfetta, evoluzione migliorativa - per concentrazione e determinazione - di quella con la quale in settimana aveva eliminato la Lazio dalla coppa Italia. Tutto è tornato in discussione, assumono un valore differente anche i pareggi di Lazio e Inter. Di un’Inter stressata. «Nell’era post-Var gli scudetti te li fanno perdere così» parole senza musica di Enrico Ruggeri. Stavolta l’autore di “Oggetti smarriti” e “Il mare d’inverno” non mi ha convinto poiché nell’arbitraggio, comunque insufficiente, di Manganiello non ho riscontrato parzialità così evidenti, né la gestione unilaterale dei cartellini (Lukaku era da rosso su Pellegrini, e c’era un rigore per l’Inter). L’intervento di Walukiewicz a fine partita che ha fatto sbroccare Lautaro, poi, non mi era sembrato neppure punibile. Ho la sensazione che l’Inter sia a un passo dall’overdose da “ossessione” di Conte, tollerata in primis da Marotta: «Antonio ha una cultura della vittoria molto forte». Più che un giudizio, un augurio. Conte è partito per l’Inghilterra che era “intenso” ed è tornato incazzato (con i giornalisti, il nemico facile) anche se molto più ricco. Salvaguardando tuttavia l’orgoglio e quel senso di onnipotenza che non gli giova come in passato perché a ogni passo falso si tramuta in frustrazione. Ieri se n’è andato da San Siro inferocito con l’arbitro proprio mentre Handanovic precisava che l’Inter non aveva pareggiato per colpa di Manganiello: in politica, in questi giorni, abbiamo sentito dire di gaffe ambidestre dovute a errori di comunicazione, pensate all’Inter e capirete che lì siamo ancora ai piccioni viaggiatori.
Passi che durante la tournée estiva sia stato allegramente digerito il cazziatone di Conte alla società per il ritardo sul mercato; passi anche l’involontaria svalutazione di Barella e altri giovanotti di belle speranze per giustifi care la resa in Champions («mi sono fidato su alcune cose, ma non avrei dovuto fidarmi, parlo dei limiti della rosa») ma come conciliare la polemica esaltazione di Lukaku con il continuo lamento sulle deficienze tecniche e numeriche del gruppo? Non se ne avvantaggia neanche Romelu, mentre il Toro Martinez esibisce la frustrazione del gol avversario beccandosi un rosso che non risulta nei suoi atti abituali. Ma è comunicazione celebrare con i media i trionfali arrivi di Young e Moses e poi lasciarli commentare dal tecnico, che non partecipa alla festa e anzi ironizza sui “colpi” di Ausilio e Marotta (o solo di Ausilio, o solo di Marotta, come insinua Petrachi) dicendo che «non abbiamo mica preso mezzo Real!». L’intensità smarrita è testimoniata da una preoccupante serie di pareggi, cinque nelle ultime sette, e dalle reazioni alle critiche, vedi in particolare lo scontro con Capello, colpevole di avere attribuito all’Inter un’efficace intenzione in contropiede quando in realtà non ha un gioco chiaramente identificabile.