Finisce la guerra e la radio italiana - da EIAR a RAI - suggerisce i primi stili di vita. E comincia dallo sport, elemento perfetto per l’emancipazione e la pacificazione. Rinasce la lingua, nel ‘48 Bartali salva l’Italia. Quelli che come me avevano ascoltato le ultime battute di Radio Londra e Rabagliati che “quando canta fa così” - milioni di italiani ammutoliti da un dopoguerra feroce - chiamarono la radio Sorella (da non confondere con Mamma Rai) vicina a ogni momento della vita, con i notiziari che via via perdevano il tono lapidario e nasceva un linguaggio semplice ma accurato che fosse compreso dalle Alpi al Lilibeo. Con la solidarietà. Con le scelte popolari che avrebbero privilegiato il calcio e la musica, il Campionato e Sanremo.
Mettere la partita “dentro” la radio - per farla “vedere” oltre che sentire - fu l’Idea del secolo. Nel ‘51 nacque Domenica Sport, nel ‘59 - finalmente - “Tutto il calcio minuto per minuto”. Prima c’era solo la cerimonia da stadio: padre e figlio insieme (poche le donne, più tardi tutelate nella solitudine da Rita Pavone) di solito in abito domenicale dopo la messa e i tortellini in brodo. Poi l’introduzione di Guglielmo Moretti e la vox perfecta di Roberto Bortoluzzi che ti facevano entrare in tutti gli stadi dove si giocavano le partite - agli inizi nel secondo tempo per non danneggiare gli incassi al botteghino, pensa un po’ - sia che tu fossi sugli spalti, al mare, ai monti o in camporella quando arrivò il transistor.
L’Idea comincia a esistere con Vittorio Veltroni, classe 1918, che cresce nei notiziari dell’EIAR, gira il mondo, non disdegna lo sport e fa anzi un Tour nel ‘37, raccontando la performance del romagnolo Mario Vicini da Cesena. Gli piacerà, il ciclismo, tanto che prima di riabilitare politicamente il grande Mario Ferretti lo precedette raccontando la vittoria di Bartali al Tour del ‘48, quella che rasserenò anche Togliatti colpito con una pistolettata da tal Pallante e per fortuna scampato all‘attentato. Gli toccò anche di raccontare - con ben altro spirito - i funerali del Grande Torino.
Veltroni come tutti i grandi di questo mestiere fece nascere una squadra: non di amiconi, anzi, facendo un salto avanti nel tempo, direi una squadra alla Maestrelli, con amici e nemici tuttavia uniti per vincere.
Il più esperto della brigata era Sergio Zavoli che giovanissimo aveva inventato a Rimini le radiocronache volanti della squadra biancorossa: Sergio, bello e ispirato, capì che il suo destino era la nascente tivù. E infatti si inventò il “Processo alla Tappa” che gli dette grande popolarità e dove anni dopo lo conobbi, durante il Giro del ‘69, quando feci lo scoop di Merckx dopato. Lo ritrovai anche direttore del GR in via del Babuino, dove adesso c’è l’Hotel de Russie. Alla guida del calcio in radio fu nominato un altro romagnolo, Guglielmo Moretti, un forlivese del ‘20 che fu mago in redazione non potendo - e se ne rammaricò spesso - nascondere nelle sue radiocronache il forte accento di Romagna. In compenso fece nascere nel ‘59 - Veltroni non c’era già più da tre anni - “Tutto il calcio minuto per minuto”, la trasmissione che cambiò la vita degli italiani.
Ma la squadra, come dicevo, l‘aveva fatta lui, Vittorio Veltroni, con abilità e umanità. Scelse colleghi capaci senza far pesare le loro scelte politiche e, se non si è sicuri di sapere perché mai Enrico Ameri e Sandro Ciotti non si amarono mai, ci si metta, oltre ai ben noti caratteracci, anche la politica: Ameri era fascista, Ciotti, progressista, era cresciuto con un padrino eccezionale, il poeta Trilussa che negli anni del regime si era dichiarato “non fascista” per non correre troppi rischi. Ho trascorso decenni con Quei Due e li ho anche arruolati facendoli scrivere per il “Carlino” e Il “Guerino”. Enrico lo faceva per un buon compenso, Sandro era scrittore raffinato. Sandro parlava poco per conservare quel po’ di voce che gli era rimasta dopo una drammatica radiocronaca a Mexico 68, l’Olimpiade che inguaiò anche Oriana Fallaci. Enrico invece parlava, e quanto parlava. Non dico delle radiocronache, peraltro offerte al popolo con taglio del tutto diverso, appunto, fra la narrazione ciottesca ricercata, ironica, tecnicamente perfetta (Sandro era stato calciatore, canzonettiere e violinista, eccolo perché anche per quarant’anni a Sanremo) e quella tempestosa, vibrante, direi “fisica” di Enrico. Da incazzato. In diretta come in viaggio, a tavola, mentre giocava a scopetta e contro il mondo intero.
Eravamo diventati da tempo amici e confidenti e un giorno, mentre stavamo con la Nazionale a Katowice, in Polonia, avendogli detto che ero stato nella vicina Oswiecim, la città che preferisce non farsi chiamare Auschwitz, a visitare quell’infernale campo di concentramento, mi pizzicò: «Che ne sai tu di campi di concentramento?». E mi raccontò della sua prigionia nel 1945 nel campo di Coltano, vicino a Pisa, dov’era stato in una gabbia di filo spinato Ezra Pound, esposto alla pioggia e al sole, e dove lui, Enrico, aveva passato brutti giorni con Ugo Tognazzi, Walter Chiari, Raimondo Vianello, Dario Fo, Benito Lorenzi, Giuseppe Dordoni, Enrico Maria Salerno, Mauro De Mauro e altri trentamila italiani che avevano scelto la Repubblica di Salò. Enrico era una furia, quando raccontava quei giorni e le successive... epurazioni: Veltroni l’aveva utilizzato anche come inviato di guerra, poi - secondo lui - l‘avevano confinato al calcio, così come RaiTre/Telekabul gli aveva tolto la conduzione del “Processo del Lunedì”, da lui inventato, per darla a Aldo Biscardi. E tuttavia, politica a parte, quant’era bravo nel raccontare la partita. Sono stato spesso in cabina con lui e un giorno l‘ho definito “l’Antognoni della radio” perché sapeva sempre dove sarebbe arrivata la palla. Insieme alla sua voce. Sandro, invece, era musica, era spettacolo, come spettacolose erano le serate da lui - a casa Trilussa, ad ascoltare jazz a 78 giri - e le donne che l‘accompagnavano, mai “del giro”, belle, eleganti, distaccate. Snob.
Per questo non m’interessa ridurre “Tutto il calcio” a pura memoria di gol, o a scambi di microfoni - “qui Ciotti, a te Ameri”- o all’eterno “clamoroso al Cibali”, o agli interventi urlati del caro Ezio Luzzi, la narrazione pacata dell’ultimo eroe, Alfredo Provenzali, il ritmo di Mario Giobbe, la conduzione elegante di Massimo De Luca, l’arrembante racconto di Riccardo Cucchi, la sapienza di Emanuele Dotto, la regia controllata di Filippo Corsini. Li ho conosciuti tutti, quei ragazzi dalle millevoci sorgenti dal territorio, a parte Everardo Dalla Noce che non cedeva al ferrarese style e Enzo Ferrari lo chiamava Bella Voce. Ho lavorato con tutti, pochi giorni fa ancora con Tonino Raffa, la Voce dello Stretto. Di ognuno potrei dirvi vita e miracoli, dare a Repice l’onore d’essere il nuovo Ameri, e il titolo di kamikaze a Antonio Monaco, l’abruzzese che a Monaco 2006 mi fece abbracciare Maradona dopo decenni di separazione. Per finire con Carlo Verna, oggi presidente dell’Ordine dei Giornalisti, che non smetterà mai di raccontare il “suo” Napoli.
(Sullo sfondo, please, le note di “Taste of Honey”, con Herb Alpert & The Tijuana Brass. E una furtiva lacrima).