Veltroni: «Ciao», il ritorno di un padre sognato

Nel suo ultimo romanzo, a 60 anni l’ex sindaco dialoga con il papà grande radiocronista anche di imprese sportive
di Furio Zara
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ROMA - Siamo figli. Tutti. Conserviamo in noi, per il solo fatto di esserlo, la scintilla di un futuro che quando si svelerà - lo sappiamo - ci coglierà impreparati. E sarà allora che ci spieremo nel ritaglio di una finestra, palleggeremo da soli (fidatevi, è la forma più alta della preghiera laica) in un’ora sospesa, ci siederemo sulle scale di casa aspettando che una porta si apra, troveremo consolazione scrivendo un libro.

NEL NOME DEL PADRE - C’è un momento esatto - in «Ciao» di Walter Veltroni - in cui figlio e padre sono la stessa cosa, uno di fronte all’altro, ciascuno davanti ad un se stesso che si sfila dai morsi del tempo e si consegna all’altro senza età, in una epifania che regala al lettore il cuore pulsante del racconto. «Più tardi realizzai che aveva solo trentasette anni, quando la sorte se lo portò via. Era un ragazzo, il ragazzo con la barba incolta e i capelli neri che ora sta davanti a me e ai miei capelli bianchi». Il figlio, Walter Veltroni, lo conosciamo: è stato molte cose, di alcune si è stancato, di tante altre per fortuna no, ha provato soprattutto - nel suo percorso pubblico - ad immaginare un’Italia migliore; per noi del «Corriere dello Sport-Stadio» è oggi il giornalista ritrovato che ogni settimana ci disegna l’atlante sentimentale dei campioni che hanno segnato la nostra Storia, da Rivera a Baggio, da Zoff a Del Piero. Il padre, Vittorio Veltroni, giornalista, scrittore, sceneggiatore, dirigente Rai illuminato, scopritore di talenti (uno su tutti, Mike Bongiorno), inventore di cose belle, diciamo qui delle trasmissioni radiofoniche e televisive che ancora oggi vengono studiate e copiate, uomo di sport. Se ne andò per malattia il 26 luglio del 1956, lasciò una moglie, Ivanka, e due figli, Vittorio e Walter; lasciò in verità molto di sé, e quel molto impasta di vita viva questa (auto) biografia intitolata «Ciao», scritta da Walter Veltroni, ma raccontata da «i Veltroni» padre e figlio, due voci, lo stesso coro.

LA LEGGEREZZA RITROVATA - E nello scorrere delle pagine, cercando l’intima ragione del narrare; ci sono venute in soccorso le parole di Lucio Dalla: «quello strano coraggio o paura che ci prende/ e ci porta ad ascoltare/ la notte che scende». La notte che scende: il padre perduto, quando Walter aveva solo un anno di vita. Il padre amato, cercato, reclamato, urlato senza urlare, silenziato per poter crescere, invocato, custodito in una scatola tra una schedina del Totocalcio e la tessera per un parcheggio mai utilizzato, immaginato nella simulazione di un abbraccio mai avuto. «Non ho neppure una foto con lui». Il padre ritrovato, a sessant’anni, quelli che Veltroni si porta addosso «secondo i più accreditati exit pool», come sottolinea con l’ironia di chi - a quell’età - ha appoggiato lì per terra la giacca (sì, intendiamo la politica) e ora dribbla i cinesini riscoprendo la leggerezza dell’adolescente. (E’ proprio vero che le nostre piccole rivoluzioni quotidiane hanno questo di bello: si vincono o si perdono, pareggiare non è bancato).

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LO SPORT CHE UNISCE - C’è molto sport, in «Ciao», perché lo sport richiede e dà identità, avvicina le distanze e racchiude il senso del viaggio di molte esistenze, la nostra compresa. C’è il Grande Torino (Vittorio fece la radiocronaca dei funerali dei giocatori caduti a Superga), ci sono Coppi e Bartali (Vittorio fu il cantore del trionfo di Gino al Tour del ‘48), c’è Ascari col casco azzurro e c’è Nuvolari, c’è «il sacrificio degli eroi sull’altare della bellezza e dell’ottimismo del Paese» (ebbene sì, c’è stato un tempo in cui lo sport ci consegnava eroi), c’è la vita che si conta scandendo la successione dei Mondiali e c’è il Giro d’Italia. «Walter, tu non sai cos’era descrivere il Giro e il Tour agli italiani. Il Paese si fermava per sentire le nostre voci raccontare di questi magnifici squinternati che cavalcando pezzi di ferro si arrampicavano per migliaia di metri».

RICUCIRE I RICORDI - I bambini (non) sanno. Ma immaginano. Per questo conoscono, prima ancora di sapere. Del padre, rivissuto nel ricordo di amici e colleghi, da Sergio Zavoli a Enrico Ameri, da Alberto Sordi a Ettore Scola, rimane la serietà, il pudore dei gesti (erano tempi, quelli, in cui la caciara era inopportuna), un’identità comune, lo stile inteso come un dovere civile. C’erano fatti concreti che aiutavano a riempire un vuoto. «Quella mattina dei settembre del 1969 mi ero svegliato all’alba. Avevo inforcato la magnifica bicicletta che mi aveva regalato Enrico Ameri, un collega di papà. A ripensarci ora, mi commuove l’idea che il più famoso radiocronista sportivo italiano dell’epoca avesse chiesto a Vittorio Adorni, appena sceso dalla Bianchi con la quale aveva partecipato al Giro del Lazio, di donare la bici al figlio quattordicenne del suo capo, morto quasi quindici anni prima».

IL FUTURO CHE NON FINIVA - Si viveva per immaginarsi migliori, perlomeno si provava a farlo. Veltroni - cercando ovunque le tracce del padre - ci fa partecipi della vertigine di un tempo felice, spettinato dal vento di un futuro che non finiva mai. (Ok, poi è finito, lasciandoci soli e disillusi, fissati nel nulla dall’ultimo inutile selfie). Lo fa, Veltroni, mescolando il passo possente della Storia con lo scatto degli aneddoti di una vita privata, la sua, mai così pubblica. Eppure: non è di sé che Veltroni parla, ma di tutti noi che siamo occasionalmente padri e saremo per sempre figli. Così quello che sentiamo alla fine del libro è il respiro leggero di chi - dopo il bel viaggiare - trova consolazione. «Siamo cresciuti allegri», confessa Walter al padre e se c’è un momento che strappa il cuore è questo. Senza di te, padre. Con te, sempre lì con noi. Siamo saltatori in lungo della vita, la sabbia sotto i nostri piedi è il tempo che ci accoglierà, atterreremo da qualche parte, prima o poi, ciao scrive Veltroni: trovare l’alba oltre la notte, dentro l’imbrunire, per questo siamo qui, in volo, leggeri e illuminati, e tutto ci è chiaro: nessun selfie ci salverà.

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