ROMA - Una voce storica del calcio italiano. Ha raccontato questo sport dietro a un microfono per oltre 40 anni. Il suo timbro caldo e rassicurante ha accompagnato gli italiani nelle telecronache della Nazionale per più di 15 anni. Con Bruno Pizzul abbiamo sofferto e gioito dal 1986 fino al 2002, quando ha lasciato il suo posto da telecronista ufficiale degli azzurri dopo cinque Mondiali, quattro Europei e tutte le partite di qualificazione trasmesse dalla RAI. Una voce inconfondibile che entrava nelle case degli italiani con uno stile semplice e coinvolgente, mai frenetico, così diverso da quello enfatico e spettacolarizzato di oggi.
Pizzul, cosa pensa dell'evoluzione del linguaggio delle telecronache calcistiche?
«E' stata prima di tutto un'evoluzione delle immagini perché ormai c'è un numero molto più elevato di telecamere. Tanti stacchi, tanti replay, tanti particolari in tribuna. E questo ha comportato un cambio di linguaggio che ora è sempre più concitato, urlato, quasi ansioso. E' diventata un po' una moda. C'è una ridondanza di parole tecniche che a mio parere è eccessiva. Forse lo spettatore vorrebbe costruirsi un proprio giudizio senza ascoltare un commento personale».
Facciamo un passo indietro. Ricorda la giornata del suo debutto da telecronista?
«Era il 1970. Ero da poco stato assunto dalla Rai e da Milano mi mandarono subito a fare uno spareggio di Coppa Italia tra Juventus e Bologna sul campo neutro di Como. Ma commisi un'imprudenza: avevo pianificato la partenza molte ore prima della partita e mentre stavo per partire passò Beppe Viola che mi disse: "Ma dove vai così presto, sei matto? Ti accompagno io, ci mettiamo una ventina di minuti". Ovviamente arrivammo in ritardo di 15 minuti. Fortunatamente la partita era trasmessa in differita, così potei recuperare i minuti di buco alla fine. Non fu un bel biglietto da visita per i miei superiori ma quando seppero che mi ero affidato a Beppe Viola mi dissero: "Se c'è Viola di mezzo, va bene così!"».
La partita più bella mai raccontata?
«Difficile rispondere. Sicuramente le prime telecronache perché s'innescavano in un mio stato d'animo di grande euforia. Fui catapultato in un lavoro straordinario, al quale fino a pochi mesi prima non avevo nemmeno pensato. Ai Mondiali di Messico '70 mi ritrovai la quarta voce accanto a mostri sacri come Carosio, Martellini e Albertini. Se devo scegliere una partita dico il quarto di finale di quel Mondiale tra Germania Ovest e Inghilterra, la rivincita della finale della passata edizione. Un incontro bellissimo e appassionante».
La partita più brutta?
«La tragedia dell'Heysel senza dubbio. Era la finale di Coppa dei Campioni tra il Liverpool, detentore del trofeo, e la Juventus di Platini. Fu una serata maledetta, una cosa inaccettabile. Non possono morire 39 persone in questo modo».
Come affrontò quella telecronaca?
«Oltre alla difficoltà di commentare una partita cercando di essere più asettico possibile, vivere una serata in un contesto come quello ti lascia una ferita profonda sotto il profilo umano. E' un 'vulnus' che mi porto dentro ed è qualcosa difficile da cancellare».
Il Mondiale più faticoso?
«Quando fai un lavoro che rappresenta per te una grande passione la fatica non la senti. Forse sul piano fisico quello più difficile è stato quello di Messico '86. Doveva essere l'ultimo Mondiale di Martellini ma proprio all'inizio della manifestazione ebbe un malore e quindi mi fu affidato tutto il suo gruppo di partite oltre a quelle che dovevo già commentare io. Per me fu un carico di lavoro importante in un Paese straordinario ma simpaticamente sgangherato come il Messico: non funzionava nulla ma appena avevi un problema arrivavano 20 persone ad aiutarti!».
Il calciatore più forte che ha visto giocare dal vivo?
«Difficile scegliere tra Maradona e Pelé. Diego era uno scherzo della natura con quel fisico ma faceva cose straordinarie con i piedi, numeri contrari alle leggi della fisica. Pelé era un grandissimo atleta con un gioco bellissimo da vedere. Ma anche i nostri 'cavallini' non erano niente male: penso a Rivera, Bulgarelli, Baggio, Totti e Del Piero...»
Facciamo un gioco: mescolando i tempi qual è la sua Nazionale ideale?
«E' difficile (ride, ndr)... In porta ci mettiamo Zoff. Certo però anche Albertosi... Non è semplice sceglierne undici!».
Proviamoci.
«Allora scelgo Zoff in porta, a destra Burgnich, a sinistra Paolo Maldini. Scirea libero e Rosato stopper. Bruno Conti ala destra, poi Bulgarelli, Rivera, Totti, Boninsegna e Riva».
Un consiglio a un aspirante telecronista?
«Interpretare il mestiere rendendolo nella giusta maniera. E' un lavoro appagante ma insidioso perché dà tanta visibilità. Purtroppo si rischia di sentirsi 'personaggio'».
Si riferisce a qualcuno in particolare?
«No, non voglio offendere nessuno. Dico solo che il divismo è un'insidia in questo lavoro. Bisogna sempre rimanere con i piedi per terra, lavorare con serietà e diciamolo: non prendersi mai troppo sul serio!».