Me la ricordo bene. Teneva questa targa sul tavolo del salotto di casa con la scritta propiziatoria: “Raffa, la favola con-inua”. Me la mostrava con l’orgoglio della donna di ferro che era, la Pelloni emiliana di nascita, sangue siciliano da parte di madre e romagnolo da parte di padre. Erano gli anni in cui i dirigenti di quella Rai avevano disastrosamente deciso che la Carrà era ormai un’icona sbiadita. Buona per la soffitta o i revival estivi in mancanza di meglio. Ora che la favola più non continuerà, ora che Raffaella non farà più rumore e poi ancora rumore, ti accorgi che è troppo grande e trop-po assordante per raccontarla. Troppo grande il vuoto che lascia, troppe le cose da ricordare, troppi i nomi, troppi i volti. Puoi cavartela arrangiando su da wikipedia e dalle tue memorie personali un ritratto onesto che le renda giustizia o spargendo a caso le ceneri del suo incantevole modo di essere stata per tanti anni una star dello spettacolo e, allo stesso tempo, una di noi. Oggetto d’incrollabile divismo e zero diva nella vita di tutti i giorni. La Carrà e la Pelloni, la stessa persona. Quella che intervistava Kissinger o Madre Teresa in tailleur a scacchi arcobaleno, danzava scatenata con l’ombelico e le pietre Swarovski al vento e la sera, a casa, blindata con i suoi amici. Dov’eri ammesso solo avendo superato un certo numero di test, incluso quello di saper giocare a scopone scientifico e a tressette.
Donna senza figli, ma grande madre con una capacità di adozione sterminata. Le ceneri del suo corpo raccolte per gli intimi in qualche urna, gli amici, gli adorati nipoti, le ceneri del suo mito a disposizione di chiunque abbia la sua Carrà nella testa, trasfigurata in tutte le direzioni possibili, Madonna aureolata o amica della porta accanto. «È andata in un mondo migliore...» ha detto con tutto l’amore di cui è capace il compagno storico, Sergio Iapino. Chi lo sa se è vero, se esista o no questo mondo migliore. Ci avrebbe riso su con tutto il cinismo di cui è capace Gianni Boncompagni, l’altro uomo della vita di Raffaella, che se n’è andato quattro anni prima di lei, certo senza nessuna pretesa d’incontrare mondi migliori.
Sappiamo, invece, di tanti cuori affranti e reazioni incredule. Ci sono morti più eclatanti delle altre. La morte di chi sembra galleggiare intatto, sempre uguale a se stesso, nella macina del tempo. Leggende non deperibili. Raffaella Carrà era una di loro. Virna Lisi era una di loro. Carla Fracci era uno di loro. «Lei è una credente», ci scherzava su Boncompagni. «Fa i programmi e ci crede» aggiungeva, fi ngendosi scandalizzato e un po’ lo era davvero. Come tanti della sua terra, Raffaella era una donna laica e credente. Credeva a quello che faceva. E credeva nella preghiera, quando si trattava di pregare per le persone care.
L’ho incontrata, l’ultima volta, nella sua casa romana, lo stesso residence di Boncompagni e Japino a Vigna Clara. Era sempre un belvedere Raffaella. Completo jeans, la gamba sconfinata e snella, la zazzera iconica al platino di Cele Vergottini, le rughe portate come un trofeo. “Pronto Raffaella”, il primo, grande sfogatoio nazionale, quando gli italiani in massa intasavano le linee della Rai per indovinare quanti fagioli nel vaso e raccontare alla fata bionda i loro patemi. Raffaella unica. L’ ultima grande soubrette. Nulla era negato al suo grande talento. Ballare, cantare, recitare, intrattenere. Già famosa nella fascinazione maliarda del bianco e nero. Quando la televisione dei miti intangibili era un virus affabile che ti entrava nel sangue, ti penetrava le ossa con le sue insegne mitiche, i Walter Chiari, gli Alberto Lupo, i Corrado e i Mike Buongiorno, quando Raffaella si esibiva in coppia con Mina, senza sfi gurare, o trascinava Alberto Sordi in una versione ombelico al vento del “Tuca tuca” in una Canzonissima del ‘71. Fino a diventare la regina assoluta del colore e della tivù della porta accanto, dell’intrattenimento familiare. La star di Carramba! Che sorpresa, sei stagioni, punte di quaranta per cento di share.
Inutile cercare faccioni celebri alle sue pareti di casa. A parte re Juan Carlos, “El hombre que sabe reinar”, trovavi solo bambini esotici. I nove fi gli adottati a distanza. Raffaella non stava nella pelle quando parlava di loro. Erano i tempi di Amore, la trasmissione delle adozioni a distanza in cui Raffaella ha creduto più che in ogni altra. Dovendo scegliere tra mille? I suoi duetti con Roberto Benigni nella versione furetto provolone e quelli con Diego Armando Mara-dona, che aveva un debole per lei. Ebbe un debole per lei anche Frank Sinatra. Che le propose di sposarla, dopo averla assediata con tutti i pezzi forti del suo repertorio galante. «Ma io avevo 19 anni e non ero mai stata con un uomo. Lui era simpatico, ma odiavo la volgari-tà del suo clan. Dei veri teppisti. Nell’albergo di Cortina accende-vano fi ammiferi nelle scarpe della gente. Sinatra li lasciava fare». La Spagna fu la sua seconda patria e ora la piange. Re Juan in persona le consegnò la massima onorifi cenza dello spettacolo. “El Lazo de Dama”. Aveva una sola paura bestiale, Raffaella. Quella di soffrire. Speriamo non abbia sofferto troppo.