Pallone e napalm. Terzini e filistei. Cuoio e carillon. Tibie e aragoste. La cosmogonia di Luca Pisapia, milanese, 42 anni, giornalista e scrittore, è sempre stata più grande del pianeta calcio, che pure resta al centro, ma è un luogo dove bisogna andare per capire dove si nasconde il fascino di Gigi Riva, a cinquant’anni dallo scudetto del Cagliari, e dove ci mimetizziamo noi, che continuiamo ad amare l’antipersonaggio e dunque personaggio vero, nell’epoca della sovraesposizione perenne. Con «L’ultimo Hombre Vertical - starring Gigi Riva» (Milieu, euro 14,90), l’autore costruisce una trama veloce, con omaggi alla Scerbanenco e alla Sergio Leone, ma anche ricca di spietate analisi sociologiche.
Attraverso la rivisitazione della carriera di Riva, dal debutto in azzurro nel ’67 contro il Portogallo al giorno della torrida apoteosi all’Amsicora, e gli altri momenti umanamente rilevanti, compreso il gol che vale l’Europa e i giorni del quasi approdo alla Juventus, Pisapia disegna il ritratto di un uomo e ne svela il mistero del suo fascino immutabile: perché un uomo così schivo è rimasto idolo di tutti? Perché ha offerto una possibilità di riscatto e speranza, ci ha invitato a diffidare dei silenziosi, degli invisibili, perché un giorno potrebbero urlare. La futbologia di cui è intriso questo viaggio, introdotto dal suggestivo proemio a cura di Luca Di Meo e Christiano Presutti, ci ricorda che calcio è dentro ogni aspetto sociale. Riva è Spartacus, Emiliano Zapata, emancipa i timidi, quelli delle retrovie, libera gli altri dalla propria assenza ma allo stesso tempo è consolatorio perché in lui il successo non è felicità leggera. Quando poi un terzino austriaco ti falcia, spezzando caviglia, tibia, perone, facendo saltare i legamenti, capisci che la leggerezza non ci sarà mai.
Riva è silenzio, lavoro, missione dura, non privilegio. Copre la distanza tra il campione e il tifoso. E’ vero che la retorica è una delle poche cose che l’italiano capisce, ma in questo viaggio letterario-sportivo, in cui ritroviamo l'eco di altri libri, c’è il racconto di un’assenza protagonista, che va al di là della rappresentazione da eroe greco, monolite, con i silenzi da Trilogia del dollaro, in cui sembra davvero di sentire lo “Sean Sean” di Ennio Morricone, citato da Pisapia. Riva fa sembrare la sua efficacia alla portata di molti, riesce a essere straordinario senza dare l’illusione paralizzante di essere unico. Il suo silenzio è quello dei lavoratori dei cantieri sotto il sole, parla solo se ne vale la pena, monocorde, andando al cuore del problema. E’ Rombo di Tuono solo in campo. Fuori si contorna di persone simili. L’amico pescatore, Martino Rocca, con cui è capace di poter viaggiare in auto senza aprire bocca per un’ora. O Manlio Scopigno. L'allenatore di quel Cagliari che vinse lo scudetto in faccia all’Italia industriale e «disumanizzata» ha un modo diverso di rinchiudersi in se stesso. Usa l’ironia, l’irriverenza, ma è sempre una fuga. La sera del trionfo alla Domenica Sportiva, Lello Bersani gli chiede: «Di lei hanno hanno detto: lo scettico blu, l’enigmatico, il filosofo, il sornione, lo squalificato. Ma insomma, Scopigno, lei chi è? Come si definisce?»
«Sono uno che in questo momento ha»… No, dovete leggere il libro. Perché quando arriverete a questo punto, nell’ultimo quarto, forse sarete Scopigno, sarete Riva, parte di quell’umanità che ha scelto di svegliarsi dal torpore. A questa conclusione è possibile arrivare grazie allo stratagemma narrativo scelto dall’autore, che costruisce un racconto a strati, in cui il nastro viene continuamente riavvolto. Come in "Rayuela" di Julio Cortázar, ci sono tre modi di leggere questa storia: dall’inizio, dalla fine, o scegliendo un capitolo e andare avanti e indietro. Non ha un vero inizio, così come non ha un vero finale. Ma li contiene entrambi in ogni pagina, come i secondi scanditi dal carillon di Clint Eastwood mentre guarda negli occhi il vecchio Van Cleef.