Mi telefonava ogni settimana - e da anni - l’amarezza che nascondeva dietro una frase, sempre la stessa: «Non sto lavorando e non capisco, ma non mi dispiace più». Conoscevo Paolo dall’8 maggio del 2002: fu lui - insieme a Simona Ventura - a volermi in studio a “Quelli che... il calcio”, indicandomi il percorso verso un’identità professionale più completa.
Paolo Beldì è stato il regista più innovativo della tv, il più fresco, l’artista del particolare e del pubblico in sala che, secondo lui, sottolineava il programma meglio di qualsiasi elemento scenico e autoriale. Dicevano che sul lavoro avesse un carattere difficile. A me ha sempre offerto il lato migliore: ironia, affetto, complicità. Ha firmato programmi come “Drive in”, “Lupo solitario”, “Matrioska”, “Quelli che…”, “Anima mia”, i Sanremo più spiazzanti, ha lavorato con e per Celentano (“Francamente me ne infischio”, Rockpolitik”, “La situazione di mia sorella non è buona”). Era anche un ottimo musicista, giocava con le note, le immagini e le parole: a volte ci scambiavamo decine di messaggi in meno di due minuti, sfidandoci sui calembour e sui cognomi storpiati. Era tifoso della Fiorentina, sarcastico e sdrammatizzante. Ne hanno scritto e ne scriveranno con le lacrime agli occhi Marino Bartoletti, Fabio Fazio, il Molleggiato, Simona Ventura, Gene Gnocchi, Antonio Ricci, Maurizio Crozza, la Gialappa’s, Carlo Conti e insomma tutto il buono della televisione degli ultimi trent’anni.
L’ultima sua telefonata, la scorsa settimana. Mi spiegò che l’Uefa aveva fissato la finale dell’Europeo il giorno del suo sessantasettesimo compleanno. Paolo mancherà tantissimo a quelli che… l’hanno conosciuto e agli amici ai quali telefonava spesso, e se trovava occupato e loro lo richiamavano, faceva sempre intervenire un passaggio a vuoto. «Mi hai chiamato? Scusami, ero al telefono». A volte con se stesso.