Da molto tempo desideravo conoscere Claudio Amendola. Confesso che, per questioni esclusivamente calcistiche, di posizionamento e opinioni talvolta divergenti, nei primi anni Novanta avevo perfino pensato di stargli sulle palle. Un paio di recenti incontri sul Frecciarossa Roma-Milano sono serviti ad azzerare sospetti e pregiudizi (tutti miei): mi sono ritrovato di fronte a un uomo gradevolissimo, autentico, perciò non mi sono fatto sfuggire l’opportunità di intervistarlo.
Claudio non è più prigioniero del suo volto così particolare e della sua storia cinematografica: non è più Mario Marchetti di Vacanze di Natale - e ci mancherebbe - ma non è nemmeno Nemo Bandera de Il Patriarca. È un professionista risolto di sessantun anni, a cui i conti tornano.
Oggi ha una fortissima voglia di “Cesaroni”, «di leggerezza, sorrisi, perché siamo un popolo che sapeva ridere ma che dal covid è uscito trasformato». Il Principe di “Ultrà” è riassunto nei tatuaggi che gli segnano le braccia, i polpacci, il 50% del corpo. «Poi ti racconterò cosa accadde dopo quel film... Il mio capitano non è Francesco, né Daniele» spiega mostrandomi con un sorriso complice l’immagine di Agostino Di Bartolomei che gli copre il polpaccio sinistro.
In un periodo in cui il calcio ha sostituito passioni con milioni, l’incontro con Amendola è una boccata d’ossigeno, è terapeutico. «Vediamoci a casa mia» mi aveva detto «stiamo più tranquilli e ti offro una birra o un caffé». L’acqua va bene.
L’appartamento, in una zona residenziale di Roma, Vigna Stelluti, è pieno di luce: lo domina un maxi schermo che più maxi di così non si può, il tapis roulant di ultima o penultima generazione è accanto al tavolo della sala, anche da questo si capisce che Claudio vive da solo. Lui esce dalla cucina con un bicchiere di birra. È appena rientrato dal set de “Il Patriarca 2” e sta per ripartire: lunedì sarà di nuovo uno dei giudici di “Io canto”, su Canale 5, che adesso è aperto alle family.
La Roma per Amendola è un universo reale e fantastico insieme, in cui lui si perde e si ritrova. È amore e un filo di disamore. «La limpidezza con cui Francesco viveva la dote della quale forse lui non si è mai reso conto fino in fondo, era qualcosa di meraviglioso. Il giorno del suo addio l’ho vissuto pienamente e dalle immagini si vede che piango come una fontana».
Gli occhi di Claudio si bagnano leggermente. «Piangevo per l’uomo. Il calciatore aveva fatto tutto quello che doveva fare. Tu vivi a Roma, quindi sai bene cosa è stato per la città. Ricordo che pensai: possibile che questo mondo non ti dia la possibilità di un dopo?, che non ti aiuti in alcun modo ad avere altro? Arrivi a smettere e ti tuffi in un vuoto che non sai colmare. Assorbii il suo disagio».
Claudio, la vita gli ha già dato tanto.
«Capisco tutto, il privilegio del talento unico, di una carriera straordinaria. Ma dai suoi occhi traspariva l’amarezza di un domanda “e mo’ che faccio da domattina?”».
Ti immedesimasti, insomma. In fondo il calciatore e l’attore sono mestieri che hanno molti punti in comune.
«Io ripeto sempre una cosa ai giovani che incontro sul set: il nostro è un lavoro meraviglioso, il peggior lavoro del mondo è fare l’attore che guarda il telefono. I vuoti, le pause, i silenzi tanti li riempiono con gli eccessi. Antidepressivi, alcol, stupefacenti. Io lavoro dall’inizio degli anni 80 e ho ancora tanto lavoro davanti. So di gente che ha guadagnato parecchio per due, tre anni pensando di continuare a farlo a lungo e poi si è ritrovata piena di debiti».
Sei un uomo di spettacolo che sul campo cerca lo spettacolo?
«Non me ne frega un cazzo di giocare bene, non me ne frega proprio un cazzo, zero. Io voglio solo vincere, come te pare a te. Poi se nella vittoria mi esalti pure perché dici due cose giuste e mi ritrovo in quelle cose, in quello spirito, e mi vai sotto la curva, io non ti mollo più. Per me l’idolo è il Mazzone di Brescia, la sua corsa verso la curva degli atalantini urlando “a fi ji de na’...” Il mio calcio è quello di Giulietta è ‘na zoccola, lo sfottò, la purezza e la genuinità della presa in giro».
Sei politicamente scorretto, dài!
«Ma il genio napoletano... Quando quelli aprono “Odiamo tutti” e loro rispondono “Amiamo tutti”. O quando i tifosi della Lazio hanno avuto la soffiata dello striscione romanista “Alza gli occhi, guarda il cielo, solo lui è più grande di te”. Brividi. “Infatti è biancazzurro”. Terribile, però bellissimo. Ma vogliamo parlare di “Siamo tutti parrucchieri”? Sono cresciuto in quel calcio che mi dava gioia, soddisfazione».
De Rossi è uno dei tuoi.
«Lo stimo tanto come persona prima che come giocatore... ma ho avuto anch’io l’impressione che l’avessero preso per evitare contestazioni dopo l’esonero di Mourinho. E forse è stato pure così, non me lo levano questo dubbio. Ero preoccupato e invece Daniele ha dimostrato di avere idee e coraggio. L’uomo è spettacolare. Tra Totti e De Rossi il mio capitano era Daniele. Su tutti, però, Agostino e Giacomo Losi». Mi mostra un altro tatuaggio. «Ce l’ho soltanto io, me lo sono disegnato addosso. Questo il laziali non lo capiscono (non lo descrivo per non rovinare la sorpresa, nda). «Voglio farci delle magliette. Pensa ad Arsenal-Tottenham, non la vendi facilmente una maglietta così?».
Il tuo rapporto con l’insuccesso qual è?
«Le occasioni non mancano mai. A volte hai la sensazione che una cosa sia stata fatta bene e che andrà benissimo e poi ti misuri con il botteghino o con l’auditel e ricevi risposte diverse, opposte. L’insuccesso deve far riflettere: forse anch’io per un periodo ho pensato che il pubblico non capisse un cazzo. Errore grave, il pubblico capisce tutto, sei tu che devi sapere a chi ti stai rivolgendo. Non posso parlare a mia madre come parlo a mio nipote. Ogni mattina bacio per terra e ringrazio di avere tutto questo... Il critico mi interessa e non mi interessa, il giudizio del pubblico mi interessa molto. Quando mi ferma una signora palermitana di cinquant’anni, è successo 25 anni fa, e piangendo dice che suo figlio ha vissuto la stessa storia che ho portato in “Mery per sempre”, provo qualcosa di forte e indimenticabile».
Sei anche regista.
«Le analogie tra il mestiere di allenatore e quello di regista sono infinite. Sto facendo il regista di questa fiction: vengono tutti da te, devi fare la squadra, li senti uno dopo l’altro. Con ognuno di loro hai un rapporto diverso, chi ha una sensibilità spiccata, chi ne ha un’altra, le fragilità, le insicurezze».
Curiosamente, in questo caso sei l’ex giocatore che allena.
«Bravo, e questa cosa mi avvicina a Daniele. Dalle immagini della tv vedo che Daniele è rispettato per com’era in campo. Davanti alle telecamere è eccezionale, lontano è anche meglio. Ogni tanto ci scambiamo dei messaggi. E poi io ero per Mourinho, cioè io a Roma ero Mourinho. Romano e romanista. E sono stato fortunato».
In che senso?
«Ho iniziato a lavorare nei primi anni 80 quando la Roma, oltre a essere molto forte, era anche simpatica, era la Roma brasiliana. Era la Roma di Falcao, di Cerezo, c’era la torcida, da Roma in giù si tifava Roma. All’inizio, con Vanzina, la Roma è stata un passepartout, Vacanze di Natale è dell’83 e io avevo lo scudetto sul petto».
Un anno dopo, Vacanze in America e la famosa partita Roma-Juve nella Death Valley.
«Girammo a settembre 83 ed eravamo già campioni d’Italia. La scena rientrava nel copione. Era voluta e proprio lì, nella Valle della Morte, era una citazione, non so quanti l’abbiano colta. Vanzina la girò a Zabriskie Point, forse il luogo del film più iconico. Questa era la grande forza di Vanzina, sapeva ironizzare, dissacrare il nostro mondo. Il protagonista indossava la maglia di Falcao, la Roma era stata sdoganata... È stato papà a farmi diventare romanista, era appassionatissimo di calcio ed era nato a Torino in palcoscenico. Di passaggio e quindi lui si vantava di essere anche tifoso del grande Toro».
Decisamente anti-juventino.
«Assolutamente, anche se viveva il calcio con una serenità che gli invidiavo, la sua partecipazione emotiva si esauriva nei 90 minuti. Ho capito solo in seguito quanto avesse ragione. Però è stato tifosissimo e sempre presente, io ho cominciato a frequentare lo stadio con lui quando ero piccolissimo».
Il romanista l’hai interpretato spesso anche al cinema. Ecco, ricordo in particolare, e ci torno, “Ultrà” di Claudio Bonivento.
«Ultrà è stato un marchio a fuoco, bivalente: da una parte tutti quelli che non erano romanisti e anche gran parte dei romanisti mi hanno identificato come il prototipo del tifoso della Roma. Chi era molto romanista, il curvaiolo, quel film l’ha subìto. Non l’ha digerito. Toccava troppo la tifoseria più attiva. Commisi un errore, mi illusi, proprio per il senso di appartenenza, che avrebbero capito. Alcuni gruppi non colsero la differenza che si sottolineava nel film tra la grande tifoseria e un gruppo di cani sciolti che andava allo stadio per fare danni. Ci furono polemiche molto aspre. Dovetti scappare da Roma-Cagliari, l’ultima di campionato, perché il film era uscito a maggio, prima della penultima. Per fortuna due amici avevano trovato posto nei distinti, a me che di solito andavo in curva. Passando davanti ai romanisti ricevetti delle minacce che ancora ricordo. In seguito partecipai a un incontro da Michele Plastino, provai a chiarire in diretta».
Li convincesti?
«No, secondo me no, non capirono».
Il tuo rapporto con la Roma è cambiato?
«Sono cambiato io e soprattutto ho cominciato a conoscere un po’ il calcio e i calciatori. Negli anni 90 ho avuto un ristorante - ne ho uno anche tuttora - lo frequentavano molti giocatori della Roma. Venivano, mangiavano e talvolta la mattina andavano direttamente al campo, e tu dici, oh, fermi tutti…».
Capito: dopo la cena, il dolce.
«Direttamente a Trigoria senza passa’ pe’ casa».
Si mangiava troppo bene...
«Ma a una certa ora la cucina chiudeva. Erano gli anni della Roma by night... Poi il calcio è sfuggito di mano a tutti noi, è cambiato, è diventato questa enorme fabbrica di sogni irrealizzati o realizzati, di illusioni, un abuso del denaro che sinceramente… Io faccio parte di un mondo dorato dove il denaro è importante, e si usa. Però attenzione, non vedrai mai un attore che ha fatto una buona stagione, un bel film, ricevere l’anno dopo quattro milioni per farne un altro. Il calcio è una partita di giro, lo strumento per movimentare una montagna di denaro e un volano per chi insegue altro. Pensa, io rosico ancora per il gol di Turone. Quel giorno ero tra quelli che salirono a Torino, una pioggia assurda. Il gol era bbono».