Il 6 novembre 2005 è una di quelle giornate che gli appassionati di motociclismo non potranno mai dimenticare. È il giorno in cui Valentino Rossi, “Il Dottore”, chiuse la stagione del settimo sigillo della sua straordinaria carriera. Quel titolo, il quinto consecutivo nella classe regina, lo consacrò nell’Olimpo dei più grandi di sempre, rendendolo già all’epoca una leggenda vivente che sembrava non conoscere limiti. Quella non fu solo la vittoria di un campionato, fu il coronamento di una flosofIa, di uno stile di vita che Rossi portava in pista e che faceva vibrare i cuori dei suoi tifosi.
Valentino Rossi, l'icona
Valentino era già un’icona in quell’autunno del 2005, ma il settimo titolo mondiale rappresentava qualcosa di speciale, un traguardo che lo allontanava sempre di più dai suoi avversari, un’impresa che solo pochi avrebbero potuto immaginare. A bordo della sua Yamaha si era trasformato in una macchina quasi perfetta. Non c’erano solo i numeri a parlare (11 vittorie e 16 podi su 17 gare, una su periorità schiacciante), ma quella capacità unica di dominare la gara con il sorriso sulle labbra, di rendere ogni sorpasso un’opera d’arte e ogni vittoria un momento magico. Il pubblico, gli avversari, la stampa, tutti erano ormai abituati a vedere Rossi vincere, ma ogni successo portava con sé un fascino nuovo, un sapore diverso, capace di attirare l’attenzione anche di chi non era avvezzo a seguire le due ruote. Valentino era il simbolo di un motociclismo che sapeva ancora far sognare. Il suo ca risma, la sua personalità esuberante, le sue esultanze sopra le righe erano parte integrante dello spettacolo. Rossi aveva capito che la pista era un teatro, e lui, con la sua innata capacità di intrattenere, sapeva come incantare il pubblico.
Valentino Rossi, la perfezione
Quel 6 novembre di quasi vent’anni fa, sul circuito Ricardo Tormo di Valencia, non fu una gara qualsiasi. Era l’epilogo di una stagione in cui Rossi aveva dominato. Il settimo titolo mondiale, già vinto matematicamente in Malesia (e celebrato inscenando “Biancaneve e i sette nani”), lo aveva proiettato a nuovi vertici, equiparandolo a mostri sacri del motociclismo come Giacomo Agostini. Partiva da una posizione di forza, ma come al solito non si accontentava di amministrare. Quella domenica, il suo obiettivo era vincere, come sempre. E si piazzò al terzo posto con una gara magistrale e sorpassi che parevano disegnati con la matita di un artista. Quel titolo non fu solo un numero in più da aggiungere alla bacheca. Fu la celebrazione di un talento senza confini, di una carriera che aveva superato ogni aspettativa e che stava iniziando a riscrivere le regole del motociclismo moderno.