Esiste l’abitudine di celebrare solennemente gli anniversari “tondi” e di trascurare gli altri. Ma c’è una data che si sottrae a questa regola e che, anno dopo anno, riaccende il senso di un doloroso ricordo. È quella del 4 maggio 1949, un giorno gonfio di pioggia e di nebbia, quando, alle 17.05, il trimotore I-Elce (un G12 della Fiat), che riportava a casa il Torino, dopo la trasferta di Lisbona, dove aveva giocato contro il Benfi ca, andò a schiantarsi sulla collina di Superga, prendendo fuoco. Morirono in 31: 18 giocatori, 2 dirigenti, 2 tecnici, 3 giornalisti, il massaggiatore, il capo comitiva e 4 uomini dell’equipaggio. Non esistevano, a quel tempo scatole nere, e nessuno ha mai potuto accertare con precisione la dinamica dell’incidente.
La tragedia di Superga
La notizia che i ragazzi, che stavano per vincere il quinto scudetto consecutivo, fossero tutti morti, era volata a tempo di record giù dalla collina, aveva attraversato il Po, si era infilata nelle strade intorno a Palazzo di Città fino ai viali alberati e al cortile dello stadio Filadelfia, quando ancora le telescriventi non avevano battuto il primo flash dell’Ansa: «Un aeroplano proveniente da Lisbona è precipitato sulla collina di Superga, con esso ritornavano in Italia i giocatori della prima squadra del Torino... Essi sarebbero tutti deceduti e deceduti sarebbero anche tre giornalisti». La gente ascoltava e piangeva, poi era scappata a casa, come si fa sempre alla notizia di un disastro, mentre cominciavano a suonare le campane delle chiese, in un mesto concerto che chi lo aveva ascoltato, mai avrebbe dimenticato. In un attimo, era tutto finito, la magìa di una squadra immensa andata in frantumi. Il Grande Torino, uno dei simboli, insieme con Fausto Coppi, della rinascita dell’Italia, uscita a pezzi dalla tragedia della guerra, non c’era più. Il motivo per il quale i granata erano volati a Lisbona non faceva altro che aumentare l’idea di un destino più che crudele: c’era da giocare un’amichevole promessa da Valentino Mazzola a Ferreira, capitano della nazionale portoghese per celebrarne l’addio. Era finita 4-3 per il Benfica e l’ultima rete l’aveva segnata Romeo Menti. Reduce da un sofferto 0-0 a San Siro contro l’Inter (30 aprile, senza Mazzola infortunato), che signifi cava un passo decisivo verso lo scudetto (quattro punti di vantaggio a quattro partite dalla fi ne), la squadra era partita volentieri, nonostante le resistenze del presidente Ferruccio Novo, rimasto a casa per broncopolmonite, lui che, insieme al conte Marone Cinzano, aveva saputo trovare il meglio del meglio dei talenti calcistici italiani e dal 1943 al 1945, li aveva preservati dalla deportazione in Germania, sistemandoli alla Fiat.
Grande squadra
Dopo lo scudetto del 1943, si era consolidata, mattone dopo mattone, la formazione, che nel tempo è stata imparata a memoria (Bacigalupo; Ballarin, Maroso; Castigliano, Rigamonti, Grezar; Menti, Loik, Gabetto, Valentino Mazzola, Ossola), sebbene in realtà fosse stata schierata una volta sola, il 10 aprile 1949, nella partita pareggiata a Trieste (1-1, rigore di Menti e pareggio di Blason). Il tecnico era l’ungherese Ernest Erbstein, coadiuvato dall’inglese Leslie Lievesley e aveva saputo creare nel tempo quella che veniva considerata la più forte squadra del mondo, capace di off rire un calcio in anticipo sui tempi, alternando la propensione all’assalto offensivo al senso del collettivo da orchestra, nel nome e nel segno di Mazzola, che Boniperti, suo avversario dal 1946, ha sempre considerato «il più grande e il più completo fra i giocatori italiani». Ma di campioni in quel Torino ce n’erano tanti, a cominciare dal portiere Bacigalupo, passando per il mediano Castigliano, il difensore centrale Rigamonti, l’ala Menti e la mezz’ala Loik e Gabetto, il centravanti. Dolore collettivo, per quelle vite spezzate, quelle speranze infrante, quei sogni distrutti. Se ne sono andati così, insieme con i loro cantori (Renato Casalbore, Luigi Cavallero e Renato Tosatti, il padre di Giorgio), passando attraverso una folla infi nita, 600.000 persone da piazza Castello al Filadelfia, impietrite dal dolore che è sempre lo stesso. Anche 75 anni dopo.