Ferrari, il padre fondatore di una Rossa invincibile

Il Drake era l’unico uomo senza cariche istituzionali che poteva ricevere a Maranello Re, Principi, Imperatori e un Papa
Italo Cucci
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La Ferrari ha vinto a Monza, il primo di settembre Sapete già come e perché e non è questa l’occasione per ripercorrere l’Avventura Rossa. A me preme ricordare l’Uomo, stranamente dimenticato nell’ora dell’ultimo trionfo. Dico di Enzo Ferrari (in rete si trovano quasi più pagine che hanno per protagonista la Ferrari Enzo), il Padre Fondatore. Gli ero amico. Mi ha dato per sempre l’opportunità di essere vicino – scelto fra tanti – a chi in questo singolare Paese ha fatto la Storia. Non ne ricordo molti altri. In fondo quando lo conobbi, incontrandolo nel suo ufficio di Maranello
spoglio e oscuro, appena illuminato da quelle tre lucette biancarossaeverde accese sotto il ritratto di suo figlio Dino, una delle sue gioie terribili, mi disse subito: «Lo sa chi sono gli italiani conosciuti in America? Mussolini, Fellini e Ferrari». Era l’avvio di una conversazione stenta, per me preoccupante: lo avevo attaccato sul Resto del Carlino all’indomani della morte di Ignazio Giunti, pilota Ferrari, riprendendo una vecchia e non sopita polemica di Civiltà Cattolica che di lui aveva detto – a proposito dei piloti morti in gara – «è un Saturno che divora i suoi figli». Ferrari ne aveva sofferto, allora, profondamente, anche per la fonte della dura critica: era religiosamente ateo, rispettava i papi che gli facevano visita in fabbrica, forse addirittura pregava, ma non insisto perché un giorno – negli anni dell’amicizia – mi sgridò per aver tentato di scrivere un suo immaginato pensiero legato alla tragedia di Dino: «Le parole ve le dò volentieri, i pensieri no, sono miei, solo miei…Lasciatemi in pace». Certo non gli piaceva, fra l’altro, passando per il centro di Modena, notare la statua di Saturno lì portata dalla Villa Adriana di Tivoli.

L’incontro

Quel giorno, dunque, ero stato trascinato davanti a lui – che era poco democratico e chiedeva spesso la testa dei giornalisti fastidiosi – per essere processato a causa di quell’imprudente attacco. A mia discolpa non dissi nulla. Precisai solo che mi stava bene Fellini, perché riminese anch’io; e mi stava bene Mussolini, perché romagnolo anch’io. Rise subito. Così potei dirgli, ad assoluzione ottenuta, che c’era un altro italiano onorato in America: Italo Balbo. E lui, con la risata aspra che spesso esibiva per apparire più cinico e sgradevole di quanto non fosse in realtà: «Credevo che volesse dire Italo Cucci… Ma lei c’entra qualcosa, con Balbo?». Gli dissi che gli dovevo il nome perché il trasvolatore ferrarese era stato allievo con mio padre del Regio Collegio Belluzzi di San Marino. Bastò per trasformare una distaccata amicizia in complicità. A Ferrari piacevano «quegli italiani lì». Nel 1924, pilota audace non fortunatissimo - uno sciopero gli era costato all’esordio la vittoria alla Targa Florio con l’Alfa Romeo - aveva fondato a Bologna il Corriere dello Sport insieme ad Alberto Masprone che era stato con D’Annunzio nel famoso volo su Vienna. Il giornale era nato per parlare di motori proprio nella regione che alle più grandi imprese motoristiche avrebbe fatto da culla: oggi i media di tutto il mondo riconoscono l’Italia – per fortuna – non per le sue imprese politiche o culturali ma per le clamorose vittorie della Ducati di Borgo Panigale e della Ferrari di Maranello che negli anni hanno sbaragliato nei rispettivi campi le grandi industrie giapponesi e tedesche. Più tardi, nata la Ferrari, l’Ingegnere (era il titolo che preferiva, adorava quella laurea honoris causa concessagli dall’Università di Bologna a riconoscimento delle sue qualità di straordinario autodidatta) le appose il piccolo scudo giallo con il Cavallino Rampante di Francesco Baracca, un altro eroe dell’aria e di un Paese sfortunatamente pieno di eroi sacrificati alla Patria indolente e irriconoscente. Capisco che coi tempi che corrono sia addirittura scomodo legare i trionfi rossi al loro antico padre. Con molto tatto in pubblico, e con una verve giovanottesca in privato (mi piacque definirlo “il Vasco Rossi dei motori” e lui ricambiò assegnandomi con Pietro Barilla il Premio Dino Ferrari). Era, il Grande Vecchio, un precursore dell’antipolitica, pur divertendosi nell’intrattenere rapporti con politici di primissimo piano che considerava o giullari o protagonisti del Grande Circo Politico alla stregua degli amati divi di Hollywood. Un giorno, però, dovette rivelare la sua piega qualunquistica: Enzo Biagi lo aveva candidato a senatore a vita e lui, per tutta risposta, aveva cortesemente declinato l’invito. Qualcuno disse che quello schermirsi era tutta scena, e allora Enzo parlò, come sempre, fuori dei denti: «Sono stato a Roma una volta, nel ’39, e ne ho avuto abbastanza». Era una esplicita condanna della politica dell’intrigo, dei fannulloni e degli illusionisti che lo aveva fatto diventare un qualunquista di genio, superiore allo stesso creatore dell’Uomo Qualunque, Guglielmo Giannini, che oltretutto portava anche la caramella all’occhio, il monocolo. Mentre il Vecchio Sparviero esibiva il suo sguardo indagatore e giudicante. Leggeva anche nei cuori.

Il film

Hanno presentato a Venezia un film sul Drake - non a caso in coincidenza con il Gran Premio di Monza - e l’ottuagenario in servizio permanente effettivo, moi, viene bombardato di quesiti. Innanzitutto, com’era davvero, Ferrari? Eppoi, cosa direbbe oggi della sua Rossa in ritardo? E quale Monza amo ricordare? Beh, il film non l’ho visto, come i curiosi che m’interpellano, dunque quel che ne so l’ho letto. E posso giusto esprimere qualche personale impressione. Dunque, non ero a Venezia, non ho avuto visioni private, non ho criticato l’opera cinematografica ma l’idea di fondo: dedicare al Vecchio un film concentrato sulla stagione più sfigata della sua vita trionfale. Il film parla del Ferrari 1957, un’annata particolare, diciamo maledetta, preceduta dalla scomparsa dell’amatissimo figlio Dino e segnata dalla morte di Alfonso de Portago e del suo copilota Nelson durante la Mille Miglia ricordata come la Tragedia di Guidizzolo di Mantova: l’esplosione di uno pneumatico della sua Ferrari 335 S con cui stava gareggiando lo fece sbandare sulla folla, nove o dieci furono i morti, cinque erano bambini. Quella fu l’ultima Mille Miglia e il giornale dei Gesuiti - “Civiltà Cattolica” - parlò di “Saturno che divora i suoi figli”. Il Drake aveva duramente sofferto la tragedia di Guidizzolo e la sua vita privata ne risentì - anche per traversie aziendali - fino alla crisi famigliare, la separazione dalla moglie Laura - mamma di Dino - e la rivelazione del suo vero amore per Lina che gli aveva dato già nel ’45 il figlio Piero. Se scrivo ora questi dettagli è perché il Vecchio non ne voleva parlare, negli anni in cui l’ho frequentato assiduamente l’argomento Dino venne fuori una sola volta, quando pubblicai una sua biografia nella quale l’autore aveva scritto che in una visita a San Marino con Dino già malato Ferrari aveva pensato di gettarsi nel vuoto dalla torre più alta abbracciato al figlio. Mi aggredì: «Non vi bastano gli incontri che facciamo, le tante cose che vi dico, adesso osate rubarmi anche i miei pensieri!».

Grande uomo

Il Drake - versione spavalda - era l’unico uomo al mondo che senza avere cariche istituzionali riceveva a Maranello Re, Principi, Scià, Imperatori, Maraja, Presidenti, Donne Famose. E un Papa, Giovanni Paolo II, Karol Wojtyla, un grande uomo come lui, accorso a Maranello per soccorrere il suo spirito. Da un libro americano, da una Factory americana, da una cultura americana e da un regista americano è stata partorita una storia inverosimile: un paio d’anni di una lunga vita operosa di un italiano che nello stesso periodo in cui si condensano le sue gioie terribili - scelte per il film - sognava davvero di farsi americano; di cedere la Rossa a Ford, di correre con una bandiera a stelle e strisce dopo che avevano tentato anche di processarlo per collaborazionismo. Gianni Agnelli lo conquistò con il riconoscimento della sua opera, non solo con la Fiat.

Beh, se volevano fare scalpore, a Venezia, dopo avere proiettato il “Comandante” potevano offrire alla critica famelica anche il “Fascistone”: così, con affetto e rispetto l’aveva battezzato Enzo Biagi, il suo primo grande interlocutore che nell’anteguerra aveva fatto un po’ della stessa strada insieme a milioni di Italiani. Gli era venuta, la battuta, anche dopo quei vivissimi 50 secondi - li trovate su YouTube - in cui il Vecchio rispondeva alla domanda: “Non a tutti piace il suo temperamento: «Ferrari - è l’accusa più frequente - è un dittatore»: cosa risponde?”. “Se dittatore è pretendere dagli altri l’impegno che io profondo nel mio lavoro, evidentemente hanno ragione”. Diceva anche, l’Uomo che ho rispettato come un padre: «La mia vita è stata un ansimante cammino. Non tornerei indietro. Non mi piace più questo mondo dove la violenza ha preso il posto della ragione. Intravedo uno smisurato penitenziario che ha in noi i suoi reclusi. L’egoismo ci condiziona, allontanandoci spesso dal prossimo, costringendoci a contare sulle nostre sole possibilità». Fatemi il nome di un altro Italiano capace di spendere tanta saggezza, operosità e fantasia fra due secoli.
Per gli iper-benisti incazzosi, un “fascistone” era anche Vittorio Pozzo, come scrisse Giorgio Bocca: «Il commissario unico era un ufficiale degli alpini e un fascista di regime. Vale a dire uno che apprezzava i treni in orario ma non sopportava gli squadrismi, che rendeva omaggio al monumento degli alpini ma non ai sacrari fascisti». Biagi, Bocca, chissà perché certi giornalisti vanno nella Storia mentre a migliaia affogano nella cronaca. Dico poi - da peccatore pentito e assolto dal Vecchio - che il massimo è avere legato il nome di Ferrari all’accusa gesuitica “Saturno che divora i suoi figli” per la quale Enzo ebbe le scuse di Papa Giovanni. Un altro Papa, il polacco Wojtyla, andò a trovarlo a Maranello. Il Vecchio non c’era, stava male. Dissero che si parlarono a lungo al telefono. Forse si confessò, il Vecchio mezzo ateo, magari ironizzando sul confessore: o l’è un Papà o gnint. Morì qualche tempo dopo, dando l’ultima fregatura agli amici giornalisti: era il 14 agosto 1988, il giorno dopo non sarebbero usciti i giornali.

 


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