Schumacher fa per sette e cinque titoli sono Ferrari

Cominciò quasi per caso, sostituendo Gachot sulla Jordan nel 1991. Carattere difficile, scarso comunicatore ma talento unico
Schumacher fa per sette e cinque titoli sono Ferrari
Fulvio Solms
4 min

Fragile, incerto, dubbioso, scarso comunicatore e non sempre in grado di controllare se stesso, ma tra i piloti più grandi di sempre. Le contraddizioni hanno striato la figura di Michael Schumacher, insaziabile divoratore di successi e carattere con zone d’ombra. Poté ancora permettersi il lusso di mostrarle, queste debolezze, finché era un meteorite precipitato sulla Formula 1 per cambiarne il corso.

Schumacher, il predestinato

Vincere il primo Mondiale ad Adelaide nel 1994 cercando l’incidente con Damon Hill – una cosa che oggi, piaccia o meno, terrebbe il colpevole fermo per un bel pezzo – e poi presentarsi alla stampa e dichiarare: «Non ho parole». Rivincerlo l’anno dopo, trasformando definitivamente «la squadra dei maglioncini», come l’Avvocato aveva soprannominato la Benetton, in una realtà di cui si sarebbe parlato a lungo e con rispetto. Portava in sé la contraddizione come, ad esempio, l’occasione dell’ingresso in Formula 1 che non gli fu offerta tanto dai successi nelle serie inferiori, quanto dalle conseguenze dell’aggressione di un pilota, il belga Bertrand Gachot, a un tassista. Un fattaccio avvenuto a Natale del 1990, ma la giustizia si mise in moto mesi dopo e il 25 agosto 1991, la domenica del GP del Belgio, Gachot era in galera, sicché sulla sua Jordan c’era Schumacher. Michael ha sempre fatto cadere la mascella di chi lo osservava: di un certo Gerd Noack, dimenticato scopritore di un bambino di nove anni che col suo kart percorreva traiettorie per altri impossibili, della Mercedes che lo schierò subito nell’endurance, di Tom Walkinshaw, di Eddie Jordan, di Flavio Briatore, nella cui Benetton il tedesco bissò il titolo mondiale nel 1995.

Schumacher con la Rossa

Poi fu Ferrari, ciò che lo portò in un’altra dimensione. La Ferrari di Montezemolo, con Jean Todt capo esigente e sempre puntuto, Ross Brawn geniale nel saper indicare la rotta, Rory Byrne, matita che a tutt’oggi la Ferrari non s’è sentita di chiudere in un cassetto, e altri brillanti ingegneri. Il nostro giornale ha raccontato Schumi nei suoi enormi meriti e nei suoi limiti, così, senza sconti, con Renato D’Ulisse, Marco Evangelisti, Paolo Scalera, Dario Torromeo e il sottoscritto. Dovendo scegliere un’immagine che racchiude il tutto: parrucche rosse. E ci siamo capiti: Malesia 2000, la festa per il titolo piloti tornato a un ferrarista due settimane prima a Suzuka e che aveva interrotto l’attesa più lunga vissuta a Maranello – ventun anni dopo Jody Scheckter 1979 - cui quella in corso comincia in modo preoccupante ad assomigliare. Prima di quel trionfo, la sofferenza di tentativi falliti contro la McLaren dall’unico pilota che di Schumi sia rimasto amico: Mika Hakkinen. Ma rimase un’eccezione perché con tutti gli altri era stato e sarebbe stato scontro, talvolta anche fisico: con Senna, con Hill, con Jacques Villeneuve (a fine 1997 Michael fu privato dei punti e cancellato dalla classifica), con David Coulthard al collo del quale Michael era saltato a Spa nel 1998, urlandogli irriferibili minacce.

Schumacher, il settimo sigillo

Campione e incontentabile” titolò il Corriere dello Sport-Stadio dopo il suo ultimo Mondiale, il quinto con la Ferrari e il settimo personale, conquistato a Spa nel 2004 senza vincere la gara, un cruccio irrisolvibile per lui. Lo ricordiamo in sala stampa con la testa bassa e lo sguardo affondato nel pavimento: «È comunque un giorno speciale, ringrazio tutti e non dedico nulla a nessuno», questo fu la formula della sua accettazione. Nessuno conosceva Lewis Hamilton, che sedici anni più tardi lo avrebbe raggiunto. Il popolo ferrarista ha adottato e stimato Schumacher – dire amato sarebbe forse troppo – non per empatia, ma per la sua capacità di vincere in serie con la Rossa e pretendere di più. Non è mai stato soddisfatto, neanche per un giorno nella sua carriera. Oggi con pena infinita lo sappiamo irraggiungibile in un lattiginoso altrove e riteniamo, come giornale, di dover rispettare questo isolamento.


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