Pantani, bello e dannato: un italiano vince a Parigi

Nel 1998 doppietta indimenticabile del grande Marco: Giro d’Italia e Tour grazie alla sua capacità di scalare le montagne più alte
Pantani, bello e dannato: un italiano vince a Parigi
Cristiano Gatti
5 min

Ha 24 anni ma tende già al pelato come uno di 64, ha le orecchie a sventola tutt’altro che aerodinamiche, viene dalla spiaggia e vorrebbe fare il fenomeno sulle montagne, ma dove vuoi che vada un patacca così. Niente da dire, se non fosse che quel ragazzo su cui nessuno istintivamente scommetterebbe un cent, proprio lui sia già dall’infanzia uno strano fenomeno.

Pantani, l'ascesa

Contro ogni forza di gravità, non appena la strada sale, diventa un tornado. Ha già assestato sonore sberle nelle categorie giovanili, ma il D-Day è e resterà per sempre il 5 giugno 1994: improvvisamente, come una folgorazione, l’Italia fa conoscenza di Marco Pantani. Vinta la tappa di Merano, lui che sarebbe solo un giovane gregario di Chiappucci, domina all’indomani anche il tappone dell’Aprica, dopo aver spianato Stelvio, Mortirolo e Santa Cristina. Braccia alzate e niente è più come prima. Dal 1994 al 2004, un decennio tondo eppure pieno di spigoli, una fetta di tempo che tracimerà dal ciclismo e diventerà storia comune, una storia bella e dannata che non lascerà indifferente nessuno.

Pantani, il signore delle cime

Marco è in tutto e per tutto un vero signore delle cime. Come un Messner della vita, studiando l’altimetria della vita vuole raggiungere tutti gli ottomila, dov’è sempre brivido e vertigine. Solo cime, niente noia di fondovalle. In bicicletta vince su tutte le montagne della leggenda, marcando il territorio già in quel ’94 della sua epifania con il secondo posto finale al Giro e il terzo al Tour, ma certo in modo potente e indelebile con la doppietta nei due grandi giri del 1998. Negli almanacchi restano nomi, date e numeri, ma nella memoria resta scolpito il modo: i suoi voli sono celesti e supersonici, poesia e violenza bruta, sempre annunciati dallo stesso gesto teatrale, un po’ vezzo narcisista e un po’ marchio di fabbrica, via la bandana e via con il turbo. Con questa indescrivibile serie di show sulle vette del ciclismo, Marco arriva anche alla vetta altissima della popolarità, con record d’ascolti di stampo pallonaro, guadagni stellari, codazzi più o meno sinceri, diventando nella baldoria generale paradigma e termine di paragone, baricentro di tutti i superlativi. A un certo punto si guarda allo specchio e vede un semidio, anzi un dio fatto e finito, certo uno che ce l’ha fatta alla grande, da fenomeno sportivo a fenomeno di massa: impossibile, ormai impossibile voltarsi indietro e rivedere là a Cesenatico il bambino timido e complessato che non si piaceva, prima ancora di non piacere agli altri. Seguendo lo spartito, strada facendo, il signore delle cime scala anche la cima della sofferenza, con una serie di fratture e di ferite da cristoincroce, una volta scendendo in gara a Torino si trova davanti un gippone, un’altra un gatto tra le ruote sulla Costiera amalfitana, cose da appiedare anche un maciste, non lui, fisicamente a prima vista una mezza calzetta, ma dentro un orgoglio ipertrofico, da semidio anzi da dio fatto e finito.

Pantani, la discesa

Poi certo, il 1999, l’inizio della fine, la vetta dell’umiliazione, ancora un 5 giugno, Madonna di Campiglio, con un altro Giro in saccoccia: la sera prima del trionfo, il controllo a sorpresa che lo impallina per sangue troppo denso, cioè doping, lui come tutti gli altri, dunque lui comunque più forte degli altri, anche se all’epoca il doping dell’Epo non lo si può ancora chiamare per nome. Tanti altri, maledetti quegli anni, toccano lo stesso fondo, ma dopo due settimane di sospensione, trangugiato pubblicamente l’amaro calice, ripartono più o meno come se niente fosse. Da capo. Non Pantani, non fa per lui. È un semidio anzi un dio fatto e finito, non può accettare d’essere adorato a metà, guardato di traverso. Tutto o niente, quando comanda l’orgoglio. Nessun fondovalle. Servirebbe magari qualcuno lì vicino a tenerlo su di spalla, ci prova Gimondi, ma lui lo allontana e si allontana, tenendosi vicino e ascoltando solo i servi interessati. E allora, inevitabilmente, l’ultimo ottomila: questa è la vetta della disperazione, salendo tra depressione e cocaina, deliri interiori e brutti giri, fino al 14 febbraio 2004, dieci anni dopo il Mortirolo, notte di San Valentino senza traccia d’amore. È la fuga finale, senza vittoria. Viene raccolto in condizioni disumane nello sfacelo di una squallida stanza d’albergo, sul lungomare di Rimini. Se ne va nel freddo malinconico della stagione morta, lontano ricordo della lunga estate di bagliori e felicità. Una parabola perfetta della sua stessa vita.


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