SIAMO AGLI SGOCCIOLI - Il grande momento della vela mondiale è arrivato, l'America's Cup, il “Sacro Graal” dei velisti, parte il 26 maggio con la Louis Vuitton Cup che designerà il team sfidante di Oracle USA, detentore della Coppa, al meglio delle sette regate. Un solo vincitore, non ci sono medaglie d'argento o di bronzo, di sei equipaggi in campo. Il meglio del gotha nautico è qui, tra le acque calme e cristalline delle Bermuda, dove l'innovazione tecnologica più spinta viaggia su catamarani che si sollevano letteralmente sull'acqua, toccando anche le 60 miglia orarie. Una velocità mai vista prima. Tutto questo avviene grazie ai foil (delle derive mobili), che apparvero per la prima volta nel 2013, scompaginando le carte di una delle regate in cui l'esasperazione tecnologica, per spremere anche un solo nodo da ogni barca, è il fulcro attorno a cui tutto ruota. Altro che romanticherie, per questo l'America's Cup è chiamata la Formula Uno del mare.
In Italia una delle voci più autorevoli è quella di Tommaso Chieffi, che oltre a essere uno dei nostri migliori velisti, ha partecipato a ben quattro America's Cup, al timone di Italia nell'87, tattico sul Moro di Venezia nel '92 e su Oracle BMW nel 2003, timoniere, tattico e sport director di Shosholoza nel 2007. La persona giusta, quindi, da cui farsi spiegare questa speciale sfida.
L' America's Cup è tecnologia pura, cosa pensa dei foil?
Team New Zealand spiazzò tutti al tempo, ma non è detto che una barca con i foil sia meglio di una senza. L'incremento di velocità è rilevante, ma comportano ulteriori difficoltà di manovra. Si cerca infatti di rimanere sui foil e non cadere, perché la conseguenza estrema può essere un rovesciamento della barca.
Quindi non è detto che sia una Coppa più avvincente delle precedenti?
A mio parere per avere un buon evento bisogna incentivare bei duelli tra barche che vadano a velocità simili e che si ingaggino. Questa è la parte importante, che poi vadano a10 o 50 nodi lo è meno. Ai giovani piacciono di più le regate sui catamarani rispetto ai monoscafi perché sono più spettacolari, d'altronde lo sport si deve adeguare ai gusti del pubblico.
Lo spettacolo rimane quindi la parte più importante...
È sempre molto importante, in Coppa America sono state introdotte delle regole proprio per migliorare la parte più spettacolare. Il catamarano proprio perché è molto veloce non si presta a “scontri” ravvicinati. Gli organizzatori hanno posto dei confini nel campo di regata, così che le barche non si possano allontanare più di tanto tra loro, rendendo tutto più vivo e attraente.
C'è un limite?
Il limite è presto fatto: lo sport è costoso. La vela è sempre stata fortunata perché ha avuto dei mecenati appassionati. Però guardando al futuro è inevitabile che si debbano trovare sempre più sponsor e di conseguenza essere seguiti da un pubblico allargato. Chi dice che lo sport dovrebbe essere senza sponsor sogna, fa parte di un mondo che non esiste più.
Si è fatto un'idea dei valori in campo in questa trentacinquesima America's Cup?
Se penso alla mia esperienza e alle voci che circolano, pare che ancora non si possa dire nulla, perché potrebbe esserci un po' di quello che gli americani chiamano “sandbagging”, ovvero mettere dei sacchi di sabbia attaccati alla chiglia per dare l'impressione che la barca vada più lenta. In questo momento Artemis, il team svedese, sembra essere il più vicino a conquistare il challenge. Si sa poco di New Zealand che è arrivato tardi per problemi economici, ma i Kiwi sono sempre un team fortissimo da non sottovalutare. Il team inglese ha avuto investimenti importanti, ha dietron la Corona inglese, hanno costruito una base bellissima a South Hampton e sarebbe bello che la Coppa tornasse da questa parte dell'Oceano, in Europa avrebbe un seguito importante.
Conosce quel campo?
Ho regatato spesso ai Caraibi ma più a sud. Le condizioni sono simili: venti regolari di aliseo tra i 16 e i 20 nodi salvo il passaggio di qualche uragano. Un buon campo di regata quindi, lo spettacolo dovrebbe essere assicurato.
Di quelle a cui ha partecipato, qual è la sua America's Cup del cuore?
Tutte, per motivi diversi. Quella su Italia nell'87 fu la prima, io e mio fratello Enrico eravamo appena tornati dalle Olimpiadi di Los Angeles. Quella con il Moro è stata un'emozione pazzesca perché abbiamo vinto contro Challenge New Zealand e siamo andati in finale contro America Cube. La prima volta di una barca italiana. Quella con Oracle mi è piaciuta perché era la prima volta in un team straniero e arrivare ancora in finale è stato motivo di grande vanto. Shosholoza è stata la sfida del ritorno alle origini, un team piccolo con ragazzi giovani ed entusiasti che mi ha riportato indietro al tempo di Italia.
Tornerebbe a fare una Coppa America?
Purtroppo per raggiunti limiti d'età non potrei più prendervi parte, ma mi piacerebbe certamente seguirla da un punto di vista più mangeriale. Mi spiece che l'Italia non partecipi, c'è stata una forte avversione nei confronti della nuova formula con i catamarani, ma credo che si debba prendere atto che questa sarà la nuova Coppa America. In fondo il tipo di barca è ininfluente, si tratta di una piattaforma su cui poi degli atleti si allenano, lavorano, mettono le loro conoscenze veliche tecniche e atletiche.