ROMA - Le maratone televisive sportive ci regalano molte occasioni di riflessione. Una in particolare: l’uso dell’avverbio ”davvero”. Madrina di questa pratica è Ilaria D’Amico e con lei decine di anchorman (o woman) nel panorama dell’intrattenimento informativo. La giornalista, segnata anche dalle faticose ore di diretta televisiva, infiora i dialoghi con gli ospiti, soprattutto se storditi da un risultato poco lusinghiero, da espressioni ormai ricorrenti: “Complimenti davvero”, “una partita sfortunata davvero”, “per queste dichiarazioni la dobbiamo ringraziare davvero”. Da una parte il “davvero” è diventato una sorta di interazione. Fa eco al sessantottino “nella misura in cui” o all’altro avverbio, “oggettivamente”, creato dalla trattatistica politica degli anni settanta. Rappresenta un contrappeso spesso legato alla metrica, al ritmo. Allo stesso tempo l’abuso dell’avverbio “davvero” lascia un segno chiaro rispetto ai contenuti espressi. O meglio ci dice qualcosa che intere ore di buona o cattiva televisione non confessano esplicitamente. Il “davvero” è il peccato originale che affiora, l’autocoscienza che si svela in quell’attimo di stanchezza in cui il linguaggio non ce la fa più a sostenere il peso della sua rappresentazione. E allora ecco che, a differenza di quanto detto fino a quel momento, quello che si dichiara lo si dice per “davvero”.
E, quindi, a cosa credere? Al “prima e al dopo” o a quella radura di verità? L’involontario artificio retorico ci pone di fronte ad una confessione, alla narrazione televisiva che prende le distanze da sé: ho finora usato un tono, ho detto certe cose, ma adesso devo aggiungere qualcos’altro. E devo essere “davvero” credibile agli occhi dell’interlocutore coinvolto fino a quel punto, insieme a me, dalla "mia" rappresentazione della realtà. Quindi prima e dopo c’è solo ipocrisia? Niente affatto. E’ lo stile che si sceglie per affrontare quel pubblico che si divide così profondamente davanti al calcio, ma che si vorrebbe tenere insieme comunque e per ovvie ragioni di audience. Ciò che “non diciamo davvero” sono espressioni, commenti, contenuti, non falsi, ma da cui siamo pronti a prendere le distanze. Quello che “non diciamo davvero” è in realtà sempre e rigorosamente fra virgolette. Se l’ex calciatore Massimo Mauro parla della disonestà dell’allenatore del Napoli, Rafa Benitez, lo fa “sportivamente”. E’ una disonestà specifica, fra virgolette, e così i giudizi più duri possono essere sempre riadattati rimodulati, spiegati. E’ quello che i filosofi post-moderni hanno descritto come il prevalere degli schemi di rappresentazione sul mondo esterno; era quello che Nietzsche avvertiva come assenza dei fatti e predominio delle sole interpretazioni . E così Husserl: scelse la strada degli antichi stoici, “epochè”, sospensione del giudizio, le virgolette appunto: uso il linguaggio perché strumento indispensabile nella vita di tutti i giorni, ma non ritengo di asseverare. Siamo pronti a dire:” x è y”, proposizione presentata nella forma predicativa adatta all'attribuzione di valori di verità, ma ci affrettiamo subito a dire in quale unico universo essa possa essere considerata valida.
E se siamo ridotti a pensare in questo modo così scettico, come facciamo ad agire? Dove è la verità che guida il nostro corretto comportamento? In effetti questa visione del mondo fra virgolette ha funzionato perfettamente nel momento in cui tutti noi, negli ultimi trenta anni, abbiamo avuto a che fare, a veri livelli, con la crisi delle ideologie e delle loro applicazioni. Abbiamo preso le distanze da tutto. Di qui le conseguenze pratiche contenute in un'altra espressione che anch’essa utilizza una forma avverbiale “il politicamente corretto”. Il politicamente corretto nasce dall’idea di tenersi sempre una strada aperta per accogliere possibili altre interpretazioni e dare ad esse una qualche dignità. Dietro questo schema c’è il sentire comune che ha messo d’accordo una bella fetta di pensatori brillanti e stanchi, elitari e populisti e che ha qualificato le varie concezioni (o i vari modi di agire) non più con il termine “ideologia” (che veniva affibbiato da ogni nuova idea a tutte quelle precedenti) ma con il sostantivo “narrazione”. Questo termine pretende di mettere tutti sullo stesso piano e non far torto a nessuno. Non solo: aggiungendo un paio di virgolette si qualifica ciascuna “narrazione” come legittima nella propria verità, rifiutando, apparentemente la scelta violenta di simpatizzare per una sola di esse. E così abbiamo avuto un modo di pensare “marxista”, “creazionista”, "darwinista", “storicista”, “liberista”, di “destra” e di “sinistra”. E così indispensabile questo uso delle virgolette che, se non scriviamo ma parliamo, flettiamo insieme indice e medio delle due mani per aggiungere visivamente questo carattere grafico . E, comportandoci di conseguenza tra virgolette, abbiamo in definitiva un salvacondotto. Agisco così un po’ da “liberista”, sì, questo è un comportamento di “destra”, posso sembrare “razzista”, ma io, in fondo, non lo sono “davvero”.
Siamo tornati al nostro punto: la notte del pensiero in cui tutto è ugualmente confuso dall’uso di virgolette bene si adatta alle controversie settimanali che i fatti di sport propongono con le ideologie locali. Ogni tifoseria, ogni partito deve essere accolto all’interno delle varie maratone televisive, mettendo però bene in chiaro che si tratta di “narrazioni”. Sempre rigorosamente fra virgolette. C’è quella juventina, quella interista, quella milanista, quella romanista, ognuna ben rappresentata, ciascuna amplificata per dar origine a quel conflitto di idee che è così democratico, ma, soprattutto, si pensa, faccia ascolti (a patto di non oltrepassare il limite del funzionamento del giocattolo che è vietato rompere e di rispettare, altra regola nascosta, il peso specifico delle tifoserie abbonate). Ma in questa città dello sport parlato, la cui agorà ha confini chiarissimi ed è così densa di “narrazioni”, emerge di tanto in tanto il bisogno di realtà; l’esigenza di tornare ad un linguaggio e ad una rappresentazione “davvero” credibile. Bisogno autentico che, forse, non si può soddisfare soltanto con un avverbio offerto a profusione.