Andrea Zorzi si racconta a teatro

Intervista alla leggenda della pallavolo italiana che, dopo una carriera ricca di successi, si reinventa attore ne "La leggenda del pallavolista volante"
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Andrea Zorzi, pallavolista due volte campione del mondo, tre volte campione europeo sotto la guida dell’allenatore Julio Velasco, sale sul palcoscenico del Teatro Vittoria di Roma per raccontare, il 25 e il 26 gennaio, una vita di sport, vittorie ed esperienze di vita che gli hanno regalato una carriera splendida e un posto nella cosiddetta "generazione di fenomeni", quelli della nazionale degli anni ’90 che vinse tutto tranne quell’oro sfuggito alle Olimpiadi di Atlanta contro l’Olanda.

 

Nello spettacolo parli di vicende sportive e anche personali. Cosa ti fatto decidere di portare in scena e raccontare a tutti queste esperienze?

Parlo delle vicende sportive dei miei anni, degli atleti di quella generazione, contornate dalla mia storia, dell’infanzia e dell’adolescenza un po’ complicate per via della mia troppa altezza. Insieme a Nicola Zavagli, regista e autore dello spettacolo, non ci siamo limitati a raccontare quindi la cronaca sportiva, ma di dare un quadro generale.  

La mia scelta personale di portare la mia vita sul palco è stata casuale, non immaginavo né di diventare un attore né di raccontarla in questo modo, è accaduto perché nacque l’idea di trasporre questa vicenda così importante nel mondo dello sport su un palco. Ne venne fuori un copione importante e fertile, e si decise di provare a metterlo in scena. Così mi sono ritrovato a raccontare pezzi della mia vita, anche molto ironici e divertenti, con tutta la sincerità di cui sono stato capace. 

Oggi ti senti più a tuo agio sul palco o in campo?

Siamo arrivati quasi a 100 repliche quindi l’abitudine e l’esperienza mi stanno aiutando, ora mi sento più rilassato. La differenza più grande tra le tavole del palcoscenico e quelle del campo è che nella pallavolo come in tutti gli sport ci sono due scelte molto chiare, si vince o si perde. A teatro invece lo spettacolo può andare bene o male e non c’è una risposta così netta come nello sport. Poi c’è il fattore pubblico, fare sport davanti a un pubblico è piacevole, ma non si gioca per lui, si gioca per provare a vincere; a teatro la rilevanza del pubblico è invece notevole, è una terza sponda che ti rimanda indietro le emozioni e quindi il rapporto con esso, anche se non lo vedi a differenza di quello che accade nei palazzetti, è più intimo.

Cosa di bello hai ricevuto in cambio dal pubblico?

Oltre a sentirmi supportato fin dall’inizio, uno dei momenti più belli e interessanti è stato dopo una replica per i licei classici di Firenze, quando alla fine un gruppetto di studenti disse "Ma noi non sapevamo che tu fossi proprio quel giocatore di pallavolo, pensavamo tu fossi un attore", e detto così è stato un bellissimo complimento.

Com’è nata la passione per la pallavolo? Solo per l’altezza o per altro?

E’ nata per l’altezza. Un professore del liceo mi disse "Ma sei così alto, perché non provi a fare pallavolo?" e coincideva anche con lo sport più vicino a casa mia, quindi iniziai, tra l’altro molto tardi a 16 anni. La ragione era che sentendomi a disagio per la mia altezza, stando in mezzo ad altre persone come me mi aiutava ad essere più tranquillo e rilassato. Da una scelta casuale sono venuti fuori risultati più che soddisfacenti, l’altezza da punto di debolezza è diventato il mio punto di forza. Mi ha portato a vincere tanto negli anni ’90 e a stare in un gruppo meraviglioso. 

Quando eri in nazionale, che rapporto si era creato con i compagni di squadra? 

E’ stato un gruppo speciale, con grandi abilità tecniche e morali che è riuscito a far diventare la coesione e la collaborazione i punti di forza, ha saputo affrontare momenti difficili e lavorare con tantissima intensità. Ci siamo rispettati reciprocamente, ma non vuol dire che andassimo sempre d’accordo, anzi, ricordo perfettamente momenti di altissima pressione e litigi, però sapevamo che ognuno di noi stava provando a fare il massimo e questo era il collante di un gruppo che è riuscito a vincere quasi tutto, tranne le Olimpiadi. Ciò nonostante quando ci si ritrova adesso a molti anni di distanza sentiamo che tra di noi c’è un’esperienza che ci unisce e rende molto bella la nostra età adulta.

Credi quindi che sia importante avere anche nella vita "una squadra" su cui fare affidamento?

E’ impossibile vivere felicemente senza far parte di gruppi o avere legami, l’uomo è un animale sociale e la mancanza di un gruppo a cui fare riferimento è quasi insopportabile quindi sono felice di averlo sia a livello professionale che personale.

La sconfitta più brutta fu quella contro l’Olanda nel 1996, ma il momento o la vittoria più bella invece qual è stata?

La vittoria più sorprendente è stata agli europei nel 1989 e la conferma come campioni del mondo nel '90. Sono le due vittorie più affascinanti ed emotivamente più accattivanti, il sogno di un bambino che si realizza. La sconfitta con l’Olanda è stata quella più dolorosa, ma siamo riusciti a farcene una ragione; è stata persa all’ultimo punto dopo una bellissima partita, rimane il rammarico di essere arrivati così vicini alla vittoria, ma oggi a quasi 50 anni guardo con occhi diversi quella medaglia d’argento.

Partecipa a programmi sportivi come opinionista, come si sente a stare dall’altra parte, a non praticare lo sport, ma a commentarlo?

E’ un cambio radicale, ma è anche vero che lo sport e la vita di atleta ti obbliga a cambiare vita molto presto, intorno ai 30/35 anni sai che devi farlo. Puoi cambiare mestiere, puoi diventare qualsiasi cosa. Può essere una limitazione o una grande opportunità, io ho avuto la fortuna di vivere un paio di "vite" nella mia esistenza e quindi questo ribaltamento di prospettiva oggi lo trovo molto interessante. Certamente è meno eccitante, ma è una bella occasione perché mi permette comunque di stare nel mondo dello sport.

Come vedi oggi lo sport in Italia?

E’ cambiato, sia dal punto di vista delle tecnologie che dagli interessi che girano in questo mondo. Ci sono pro e contro, ora c’è maggiore interesse e maggior scambio di opinioni rispetto a prima. Da cinquantenne però sento la mancanza della lentezza con la quale crescono i rapporti, sono sopraffatto dalla velocità di adesso. Si creano grandi campioni, che poi in poco tempo vengono subito dimenticati. Mi piace il passato, ma sono anche molto legato allo sport attuale.


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