Il lettore mi scuserà se stavolta mi prendo la licenza di scrivere in prima persona. Lo faccio perché parlo della Nazionale e la Nazionale è stato un affare mio, anche mio, per trentun anni, dal Mondiale messicano dell’86 all’Europeo del 2016. Scrivo in prima persona perché chiedo delle scuse per tutti quelli che, come me, hanno amato e amano la Nazionale. Scuse per quei tifosi che ancora oggi seguono gli azzurri, scuse per quei campioni che hanno indossato e onorato quella maglia, scuse per quei giornalisti che, appartenendo all’era paleolitica di questo mestiere, credono sia possibile restituire se non grandezza almeno orgoglio alla Nazionale. Sciocchi Don Chisciotte del pallone. Scuse da parte di chi? Di un dirigente federale, qualunque dirigente federale che dal 2006 a oggi abbia avuto una carica di rilievo nella Figc, di un presidente, un commissario, un capo del Club Italia, uno qualsiasi. Oh, intendiamoci, non è che i giornalisti, nella loro funzione, siano esenti da colpe. Tante volte ho preso fischi per fiaschi, per esempio avrei scommesso chissà cosa sull’Italia al Mondiale del 2014 e si è visto come è finita.
Ieri, due giorni dopo la certezza di aver raggiunto il punto più basso della storia del calcio azzurro, i giornali erano pieni di Agnelli, della terza coppa europea e, fra i progetti del presidente dei club più ricchi d’Europa, c’era anche la riduzione delle finestre per la Nazionale, da 4 a 2/3 a stagione, anche se viene garantito che non sarà tolto spazio... Vedete che sono solo un patetico nostalgico valcareggiano, bearzottiano, viciniano, sacchiano, maldiniano, lippiano e anche prandelliano? Il calcio vola da un’altra parte e io resto incollato, col mio antico e tradizionale sedere, sulla panchina di un calcio scomparso, mentre quello attuale mangia se stesso per poi riprodurne un altro nuovo e così via per l’infinito. Poi però i miei colleghi Santoni e Pinna vanno a Lisbona e devono assistere a una vergogna. Il giorno dopo accendo la tv e vedo la terza generazione degli spagnoli che incanta. Mi domando allora dove stia la ragione. Sbaglio io a chiedere di tornare indietro e recuperare, a tutti i costi, il valore della Nazionale o gli altri che se ne sbattono pensando a rendere sempre più ricco il club, solo il club? Mi domando quanto orgoglio debba sentire dentro di sé uno spagnolo che ama il calcio a vedere Asensio, Ceballos, Rodrigo e Gayà, lo stadio di Elche strapieno, lo stadio di Bologna mezzo vuoto.
Anche nelle ultime pagine dei giornali sportivi di ieri, dove sono collocate le analisi della disfatta della Nazionale, si trova solo una breve dichiarazione del dg federale Michele Uva che dice che la Figc è al 100 per cento con Mancini. Vorrei vedere. Uva ha comunque detto una cosa. E gli altri? Alla fine del Mondiale in Brasile si dimisero in blocco, il presidente e il ct, fu una mossa di estrema correttezza e dignità, ma non è servita a niente, non ha smosso niente. Le squadre di club hanno padre, madre, zii, zie, fratelli e sorelle, appartengono a famiglie numerose, la squadra azzurra è orfana. Rompe le scatole a tutti, anche a quegli allenatori che, prima di diventare ct, siedono sulle panchine dei club e lavorano fregandosene del calcio di tutti. Ultimi esempi, Antonio Conte e Roberto Mancini.
Dal calcio non arriva un’idea, una sola, che favorisca la squadra azzurra. E allora va bene così. Guardiamo il futuro da una parte sola, tanto per la Nazionale è sempre aperto il Museo del Calcio di Coverciano. Se poi, incorreggibili romantici, volete ancora ammirare la maglia azzurra di chi era in campo in Italia-Germania 4-3, lì ce la troverete. Mezzo secolo fa. A me sembra ieri, agli altri sembra era paleolitica.