Mi ha scritto un lettore, all’alba: “Se le tocca, non scriva che Valentino avrebbe avuto cent’anni. Valentino HA cento anni. È vivo”. Sì. M’è toccato ricordare Valentino Mazzola - come pochi giorni fa, nella mia posta quotidiana - perché c’ero, nei giorni della sua gloria calcistica, ed ero anche tifoso del Toro, come milioni di ragazzini, come il lettore che giustamente me lo ripropone vivo. Tanto che avrei potuto fare a meno di ricordare quel 4 maggio del ‘49 che non è solo suo ma di tutti quei ragazzi in maglia granata - la squadra più bella del mondo; di quei trentuno - giornalisti, accompagnatori, piloti, personale di volo - che hanno spostato il loro mondo su un altro pianeta, quello dell’amore e della memoria, e che ricorderemo nel settantennio della fine di quel viaggio cominciato a Lisbona, scalo a Barcellona. Morte a Superga.
Non è retorica dire “Valentino è vivo” perché è sopravvissuto sì il campione ma soprattutto l’uomo. E le sue imprese non sono solo quelle che raccontarono Brera, Molino, Bertoldi, Violanti e Pozzo, sì, il vecchio citì bimondiale che dovette riconoscerli uno a uno, i caduti di Superga, ma Indro Montanelli, Nicola Adelfi (De Feo), Paolo Monelli, Dino Buzzati, quelli che “facevano politica” e avevano individuato nel suo rammentatissimo “tirarsi su le maniche “ un gesto che avrebbe potuto spalancargli le porte del Parlamento: perché se De Gasperi cercava di far crescere il partito dei buoni cristiani e Palmiro Togliatti (tifoso della Juve) quello degli incazzati, Valentino rappresentava non solo i lavoratori ma la Voglia di Lavorare, di ricostruire, di rimettere in piedi l’Italia Turrita demolita dai nemici e dagli alleati (non conoscevamo, ancora, i danni collaterali).
Era anche - come ho avuto modo di rammentare - un uomo non solo del suo tempo, ma del nostro, antibigotto, viveur nel possibile, appassionato di amore e di soldi, stretti in un naturale connubio; l’amore fece anche scandalo, il denaro no: precisava il suo presidente, il parsimonioso e non ricco Ferruccio Novo, che batteva la Juve Fiat e vinceva scudetti senza fatturati eccellenti, che a Valentino dava il doppio che ai suoi compagni su richiesta di questi ultimi: «Se sta bene lui - dicevano - vinciamo meglio».
E dire che con Mazzola c’erano Bacigalupo, Ballarin, Maroso, il “mio” Gabetto, oh i gol di Gabetto... Mazzola lo capiva meglio mio padre, per quel che ho detto della sua figura da leader, della sua potenza sorridente. Già trovavo, nelle pagine del tempo, quanto fosse amato; ma soprattutto rispettato. Non vi ho detto molto del calciatore, santificato da tutti, offensivisti e difensivisti, “sistemisti” e “metodisti”. Ho scelto poche parole di Amedeo Amadei, il “Fornaretto” che lo conobbe sul campo: «Ho fatto appena in tempo ad apprezzare da vicino lo straordinario talento di Valentino. In Italia non c’è mai stato un calciatore completo come lui. Né prima, né dopo». Un bel lasso di tempo: Amedeo - che ho conosciuto e stimato - se n’è andato da poco, sei anni fa. Valentino forever - si dice oggi. Anche per la fede calcistica. Stava per diventare dell’Inter, proprio in “quei” giorni. Il destino - indefinibile - volle che restasse granata per sempre. Fedeltà oggi incredibile. Come quella di Sandrino, degno figlio, che fu richiesto dalla Juve e la mamma gli disse: “Cosa penserebbe papà?”.