ROMA - Roma è una poesia. Per quasi tutti. Per alcuni è una filastrocca. «Amarildo, Del Sol, ogni tiro è un gol. Ma ce n’era anche un altro che non rammento». Ciccio Cordova. «Ecco, Cordova. Quando mi dicono che sono arrivato a Roma già bollito io canto quella strofetta». Con voce ferita da un’operazione ma sempre squillante. Amarildo Tavares Da Silveira era un timido che non stava mai zitto. Probabilmente lo è ancora. «In campo m’infuriavo, è vero. Anche per quello i tifosi mi apprezzavano». Ha vinto qualcosa dovunque sia andato tranne alla Roma. «Il Mondiale del 1962 con la Nazionale brasiliana, due titoli carioca con il Botafogo, la Coppa Italia con il Milan, il titolo italiano con la Fiorentina nel 1969. Quell’anno ci aggiunsi il matrimonio con Fiamma. A Firenze ho avuto tutto ciò che desideravo, alla Roma meno di quanto meritassimo».
Era una squadra di mezzi pazzi e di qualcuno a cui essere solo mezzo pazzo neppure bastava: Zigoni, Cordova, Del Sol. E lui, ovviamente. «Due stagioni, dal 1970 al 1972. Avevano appena ceduto Capello, Spinosi, Landini. Noi nuovi non eravamo affatto male, però non abbiamo avuto il tempo di diventare squadra». Amarildo ci metteva del suo arricchendo la vasta collezione di squalifiche. Gli hanno contato 10 espulsioni e 32 giornate di sospensione. «Ormai avevo fama di attaccabrighe. Appena sentivano un rumore sospetto gli arbitri mi cercavano con gli occhi». Di quella Roma che arrivò sesta e settima Franzot racconta come lui e Salvori dovessero correre mentre gli altri si divertivano. Anche Amarildo la ricorda così, dal suo punto di vista: «Il calcio funziona in questo modo. Chi ha classe e chi ha gambe».
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