L’ applauso per niente riverente lo facciamo noi oggi ai giudici, dateci pure la squalifica che meritiamo. E non chiamatelo applauso di scherno, chiamatelo applauso di sdegno. Chiamatela anche nausea. Chiamatela rivolta. Due insopportabili orrori in uno. Respinto un ricorso più che legittimo verso una sentenza iniqua e sferrato l’ennesimo calcio in culo alla giustizia (mai scritta così minuscola) che, prima ancora d’essere un elenco di leggi da scartabellare, è un sentimento da custodire. Il più ingiuriato, il più precario, il più offeso sentimento di questo nostro tribolato Paese. Questo è accaduto ieri a Roma nelle aule della corte sportiva d’appello.
La riversificazione in forma giuridica dei buu da stadio. “Fiduciosi” lo eravamo un po’ tutti, non solo Koulibaly e i suoi avvocati. Abbastanza convinti che i giudici non avrebbero perso l’occasione unica di dare un segnale forte contro la barbarie dell’idiozia negli stadi, così idiota che non ce la fa nemmeno per mancanza di argomenti a diventare razzismo. Non pretendevamo chissà cosa. Una sentenza illuminata, e pazienza se passata attraverso lo scarto della demagogia.
Serviva solo una cosa, non importa come, che uno splendido ragazzo, umiliato e ferito, fosse risarcito. Delle offese volgari della gente e della punizione ottusa di un arbitro. Un ragazzo su cui erano piovute secchiate di merda dalle uniche vere scimmie, e le scimmie mi perdonino, quelle che stavano negli spalti. Un ragazzo che una comunità avrebbe dovuto casomai proteggere come un figlio, e finito invece nelle ottuse mani di forbici di arbitri e giudici sparsi. In nome di quell’astratto tecnicismo di cui si gonfiano il petto i mediocri, non potendo attingere all’unica risorsa per cui dirci umani, la sensibilità che si fa interpretazione e diventa guanto. L’ennesima occasione perduta. Di questo parliamo. E ogni volta, ritrovarsi più poveri.